Roberto Calasso
IL POTERE E LO STATO
Perché Stalin è ancora vivo
Roberto Calasso – Corriere della Sera 24 maggio 1978
Nel 1935 Boris Souvarine, uno dei fondatori del partito comunista francese, segretario della Terza Internazionale, prima di esserne escluso per «indisciplina», metteva la parola fine al suo Stalin, imponente biografia del capo russo, dove si affermavano (e si documentavano) tutti quegli orrori che ancora oggi vengono enumerati con qualche esitazione. Nella nuova edizione di questo libro fondamentale, apparsa pochi mesi fa, il meticoloso Souvarine non ha avuto bisogno di correggere nulla del suo testo. Ha solo inserito qualche nota per precisare cifre e dati che anni prima non potevano essere conosciuti. Si tratta, generalmente, di qualche assassinio, di qualche zero da aggiungere al numero dei morti.
Ma torniamo al 1935: George Bataille, amico di Souvarine, poiché la decisione dell’editore Gallimard tardava, chiese notizie dello Stalin a Malraux, il giovane romanziere dalla scriminatura rigorosa e dagli impermeabili cinematografici, che era membro del celebre «comitato di lettura» della Casa. E Malraux gli rispose: «Avete ragione, voi, Souvarine e i vostri amici, ma saremo dalla vostra parte quando sarete i più forti».
Credo che questa frase ci dica di più su Malraux che non la lettura delle sue pro-lisse meditazioni sull’arte. Ma non l’ho citata qui per Malraux. L’ho citata per Stalin. Perché se oggi la scena si ripetesse, a venticinque anni dalla morte di Stalin, la risposta del nuovo Malraux non potrebbe che essere uguale. Stalin è ancora oggi il più forte. E tale è la sua forza perdurante che essa è entrata clandestinamente in tutti i capillari del pensiero – e ben pochi la notano, ormai.
Certo, si parla dello «stalinismo», si stabiliscono quote variabili di «caratteri de-generativi» in questa escrescenza patologica sul ceppo vigoroso del bolscevismo. O altrimenti, negli Stati Uniti, a conferma della inveterata cecità di quella cultura verso Marx e tutto ciò che in qualche modo gli è connesso, si affoga Stalin nel bagno del «totalitarismo», a cui non ci si stanca di contrapporre il fiero «individualismo» del cittadino americano, ma senza porsi il problema di quale possa essere il legame segreto fra le due forme di società, opposte in tante cose, ma accomunate da un carattere decisivo: quello di essere società sperimentali.
E soprattutto – in questo concordano europei e americani – si guarda a Stalin come a un (grave) incidente del passato. Non si vuole riconoscere che il grande trionfo di Stalin avviene oggi. Stalin è l’unica persona che possa gareggiare con la bottiglia di Coca-Cola nella capacità di contagiare ogni luogo del mondo. Dalla Russia, che ha proclamato la «destalinizzazione» al fine ultimo di far sopravvivere il modello staliniano non più come un fatto storico ma come una fase necessaria nell’evoluzione della natura verso Breznev; dalla Cina, che non lo ha mai rinnegato; dai terroristi, il cui linguaggio ci spinge a supporre che abbiano succhiato il latte dalle mammelle di Stalin; dal groviglio di paesi dell’Asia e dell’Africa, che in casi sempre più numerosi (la Cambogia è solo l’ultimo esempio) sembrano volersi «risvegliare» innanzitutto per applicare al più presto i dettami dello stalinismo eroico (quello, per intenderci, dell’«offensiva su tutto il fronte», che implica lo sterminio rapido della controrivoluzione, identificata nella totalità del circostante, a cui vanno sottratti, in un primo momento, gli sterminatori stessi); dai partiti eurocomunisti (e qui svetta, come sempre, il PCF), che non sono ancora riusciti a intaccare a fondo quella concezione del Partito che fu, sì, sviluppata da Lenin nel periodo «cospirativo» del bolscevismo, ma ha raggiunto la sua «realizzazione» piena solo con Stalin: da tutte queste presenze (ben più di un miliardo di persone) si può constatare che mai come oggi Stalin è stato vivo e fra noi.
È perciò come un segno di lucidità intellettuale che si può considerare il libro di Rita di Leo, Il modello Stalin (Feltrinelli), dove sin dalla prima frase si afferma che «la soluzione staliniana è risultata finora la sola vincente». Con puntiglio, e rifiutando – da brava Operatrice della Scienza -, di farsi prematuramente frastornare da giudizi di valore, la di Leo ricostruisce come funzionava il «modello di Stalin», perché ha funzionato con tale implacabile efficacia e perché continua ancora oggi a funzionare.
Fra i vari risultati a cui giunge la di Leo, vorrei isolarne due, che s’illuminano l’un l’altro. Primo: lo Stato di Stalin fu davvero il primo (con Lenin la situazione era ben più composita) in cui la classe operaia andò al potere. «Nel decennio fra il ’29 e il ‘40», ha ricordato la di Leo in un’intervista, «i quadri operai hanno sostituito gli intellettuali di origine borghese alla guida dell’economia, dell’amministrazione e delle attività sociali». Secondo: il nome di Stalin è legato alla pianificazione, al sogno marxiano di uno sviluppo economico trasparente, controllato e razionale, sottratto al cieco meccanismo, all’anarchia del capitale.
Ora, come la di Leo ha fatto vedere anche in un avvincente articolo su Aut Aut, è singolare il modo in cui Stalin arrivò alla pianificazione. Essa, di fatto, lo interessava ben poco come strumento di un «giusto» sviluppo economico. Lo interessava enormemente, invece, come formidabile strumento indiretto di controllo sociale. Così, Stalin innanzitutto si preoccupò di liquidare gli economisti (di origine borghese) del Gosplan, che pretendevano ancora di dare un qualche senso economico alla pianificazione. Poi decise di puntare su una minoranza, la classe operaia, contro tutte le altre categorie, a cominciare dai contadini e dai piccolo-borghesi. Infine riaffermò con durezza la subordinazione dell’economico alla politica (e anche qui, se ci teniamo all’espressione verbale, nella più stretta ortodossia marxiana).
Ma che cosa voleva dire, in questo caso, «politica»? Voleva dire un rafforzamento inaudito del proprio potere, la sua trasformazione, si vantava Stalin, nel «potere più stabile del mondo» e ciò appunto servendosi di quell’ordine coercitivo che il piano doveva istituire nel Paese, in apparenza per raggiungere i suoi obiettivi di produzione. Gli operai chiamati a posti direttivi (e soprattutto i molti che non erano chiamati, ma sapevano che avrebbero potuto esserlo) credevano così di lavorare per costruire il Paradiso del piano, ma contribuivano soprattutto a perfezionare un grandioso Sistema di Dominio, che metteva in atto «un controllo sociale senza precedenti nella storia della società umana». Così, la liquidazione dei kulaki fu all’origine, anche, di un gravissimo danno economico per l’agricoltura, da cui la Russia non si è ancora ripresa, ma segnò un irreversibile rinsaldamento del potere del Partito-Stato, quindi di Stalin.
Quando si parla della burocratizzazione patologica sotto Stalin, si dimentica spesso che Stalin fece uscire quei burocrati in gran parte dalla classe operaia stessa. Col freddo intuito del Potente, Stalin capì che nulla sarebbe stato efficace come la persecuzione della classe operaia da parte di se stessa.
L’operaio trasformato in agente della polizia segreta (quando è duttile) o (quando è più rozzo) in cavia a cui far scoppiare il cervello con la dottrina «corretta», come si fa scoppiare il fegato alle oche: questo è l’«uomo nuovo» di Stalin. E così si svela l’atroce beffa implicita nel fatto che lo Stato di Stalin sia definibile come il primo esempio di «potere operaio».
Come arrivò Stalin a queste intuizioni? A differenza di Lenin, non aveva straordinarie capacità intellettuali. Ma aveva, in compenso, quella peculiarità che è l’arma in assoluto più micidiale in mano a un Potente: il disprezzo per gli uomini. Più di ogni altro statista del secolo, egli sapeva individuare i loro punti di debolezza. Sapeva che – sia per stupidità, sia per paura, sia per fideismo, sia per avidità, sia per vocazione – moltissimi avrebbero fatto il passo fatale da Operai a Controllori.
Noi non possiamo in nessun modo, e in nessun senso, ritenerci lontani da ciò che è avvenuto in quegli anni. Con Stalin (e con Hitler) si opera il primo, e più brutale, passaggio dallo Stato di Diritto allo Stato di Controllo (in un mondo sempre più incontrollabile). Questo passaggio segna una nuova era, in cui noi stessi oggi viviamo: e in quella stessa direzione si muovono (certo, per altre vie!) non solo le varie e variamente illuse democrazie occidentali ma tutto il sistema dei rapporti fra gli Stati del mondo.
La «degenerazione staliniana» è un morbo che vaga in tutto il pianeta e colpisce i nemici ufficiali di Stalin non meno dei suoi vecchi o freschissimi amici. Nell’intervista che ho citato la di Leo conclude, rimanendo fedele alla spassionatezza dello studioso: «Quando pensiamo a Cromwell o a Robespierre non pensiamo ai loro crimini ma al salto politico che hanno rappresentato nella società del loro tempo. Fra cinquant’anni ci riferiremo a Stalin come al primo caso di potere operaio nella storia».
Quanto è vero! Vedo già legioni di storici futuri intenti a spiegare, con dovizia di dati, il «salto politico» di Stalin, «salto» che, come noto, è tanto più grande quanti più cadaveri occorre saltare. Ma non abbandono una speranza: che rimanga sempre qualcuno per cui tutti coloro che hanno preteso da chi li circondava il «sacrificio per la Società», nutrendone il loro potere, appaiano come esempi della più bieca e orrenda superstizione.