Testo originale dell’intervista rilasciata da M.Tronti a La Stampa del 26 marzo 2021

Dopo la crisi del 2008, gli elettori sono finiti nelle braccia dei sovranisti e dei populisti, i partiti non sono mai riusciti a trovare maggioranze stabili che onorassero il mandato popolare. C’è chi sostiene che il governo Draghi sia la soluzione estrema che il presidente della Repubblica ha dovuto mettere in campo dopo il fallimento dei partiti. Questo governo rappresenta un colpo alla democrazia rappresentativa?

         Rifuggo dalle letture complottiste che ho visto circolare nei giorni passati, soprattutto nella parte estrema della sinistra, circa sbreghi anticostituzionali, a favore di poteri forti, nazionali e internazionali. E’ stato applicato alla lettera l’art. 92 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Questo, dopo aver verificato attraverso l’esplorazione del Presidente della Camera, che non esisteva più una maggioranza stabile di governo, in grado di far fronte alle due urgenze: risposta forte all’infuriare della pandemia e risposta seria alle opportunità del Next Generation Eu. Non è stato il fallimento della politica, ma il fallimento di improbabili maggioranze di governo, occasionali e divise sui fondamenti del fare politica.    

Alberto Asor Rosa, suo compagno di strada in tante avventure politiche, sostiene che il governo Draghi, nato fuori dal Parlamento, ha accentuato gli elementi di crisi presenti nelle forze politiche.  Condivide?

         Con Asor Rosa c’è tale profonda e antica amicizia che di alcune marginali differenze di opinioni, siamo soliti ridere di gusto fra noi. Il governo Draghi ha una più che solida maggioranza parlamentare, che rassicura il Paese in un momento di grave insicurezza. Ed è vero che ha accentuato gli elementi di crisi nelle forze politiche, ma questo può essere un fatto positivo. E’ un passaggio, non è un approdo. La transizione, se i partiti la comprendono, può portare a un ridisegno del sistema politico, nel senso di un nuovo bipolarismo tra due coalizioni alternative, ognuna con un suo progetto di Paese, una sua idea di Europa, una sua idea di mondo. Sarebbe bene nel frattempo lavorare insieme a una legge elettorale, che se vuole essere proporzionale deve contemplare un premio di maggioranza, in grado di assicurare stabilità di governo. E tanto meglio, se si introducesse la clausola della fiducia costruttiva.  

Arrivano accuse al governo di essere più schierato con il centro destra che non con il centro sinistra. Sono fondate?

         No. Non le trovo fondate. Lo dimostra lo stesso decreto Sostegno, pur frutto di inevitabili mediazioni, che saranno ricorrenti in un governo che vede al suo interno forze politiche contrapposte. Draghi non è un tecnico. I suoi incarichi passati ne hanno già fatto un politico. Adesso si trova a mettere a frutto queste sue doti. E avrà un bel po’ da fare. Io apprezzo il salto di qualità, che c’è stato in alcuni ministeri e soprattutto nella figura del Presidente del Consiglio. Su questa figura siamo passati dall’approssimazione alla competenza, dalla fatuità alla serietà. Abbiamo visto una conferenza stampa, in cui il Presidente apre brevemente e poi lascia la parola ai ministri competenti. Non più il monologo in solitario a illustrazione del “suo” Dcpm. E rassicura di non vedere più il Presidente del Consiglio in giro per il centro di Roma a caccia di selfie dei suoi ammiratori.  

Sono 40 anni esatti dall’esperimento di “Laboratorio politico” la rivista da lei fondata che coinvolgeva, tra gli altri, Asor Rosa, Massimo Cacciari e altri. “Laboratorio politico” vuole essere, lei scriveva nell’editoriale del primo numero, un “laboratorio di riflessione e di scavo teorico, storico, analitico” e un “costruttivo contributo a un salto di qualità del discorso della sinistra”. Oggi cosa è la sinistra? E’ di nuovo attuale quel suo progetto?

         “Laboratorio politico” nacque all’inizio degli anni Ottanta in controtendenza rispetto a quello che poi sarà quel decennio. Presentava una task force plurale di energie intellettuali che già allora ponevano il problema di una sinistra aggiornata e moderna. C’era ancora la figura dell’intellettuale politico, che oggi è totalmente scomparsa insieme alla Repubblica dei partiti. Questo è un tempo di povertà culturale che dà il suo specialistico contributo al dominante umore antipolitico. No, non è più attuale quel progetto. Abbiamo dietro le spalle decenni di devastazione di tutte le forme, sociali, istituzionali, etiche, politiche. E francamente non so se sia realistica un’idea di ricostruzione da  dopoguerra. Malgrado tutto, bisognerebbe provarci.

Cosa pensa di Enrico Letta, che ha un passato da giovane dc, alla testa dei Pd?

         Ho avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo da Presidente del Consiglio, mentre ero in Senato nella scorsa Legislatura. Mi sembra un po’ come l’arrivo di un Draghi nel Pd. Può avere la stessa funzione di cambiamento di fase. E con un compito addirittura più difficile. Penso che la sua esperienza francese l’abbia ancor di più maturato e il contatto con giovani intellettuali lo abbia anche un po’ radicalizzato. Niente fa più bene a un politico che un periodo di distanza dalla politica. Bisognerebbe prevedere un Erasmus per i politici. Adesso Letta deve trasformarsi da uomo di governo a capo di partito. Sono due professionalità politiche diverse. E anch’esse andrebbero alternate.  

Le sono piaciute le sue prime proposte, il voto ai sedicenni e lo ius soli: possono avere appeal o sono un boomerang? Ci sono altre priorità?

         Il Pd è di fronte al dilemma della sua vita: se continuare a tentare di essere l’Ulivo che si è fatto partito o diventare quella grande forza popolare di sinistra, nuova, avanzata, inedita, di cui questo nostro Paese sente acutamente la mancanza. Naturalmente perno centrale di una coalizione forte e larga in grado di competere elettoralmente  con una destra, democraticamente legittimata, anche in  forza di questa transizione. Una cosa è certa. Nella scelta dei temi di battaglia da mettere in campo, occorre tenere in mente questa assoluta necessità: la sinistra non solo non vince, ma non vive, se non toglie consenso di popolo alla destra. Non è contraddittorio radicarsi nei luoghi dello sviluppo accanto ai ceti produttivi e radicarsi nel contempo nelle periferie del Paese, a contatto con il disagio sociale crescente. Un poco di memoria non guasterebbe a ricordarci che questa difficile missione è già stata realizzata in grandi esperienze del passato. Perché non tentare di riaggiornarla ai nostri tempi tanto mutati? 

         Il suo  “Operai e capitale”, con le riletture originali di Marx e Lenin e anche con il suo stile letterario ebbe un grande fascino sui giovani. Si possono pensare operazioni del genere oggi? 

         Sarebbe bello quanto impossibile. Erano gli anni Sessanta, un capitalismo industriale in ascesa, un ciclo di lotte operaie dirompente al suo interno, grandi sindacati, grandi partiti e un sistema politico in salute. L’operaismo italiano è stato un romanzo di formazione, continua ad esserlo, per intere giovani generazioni ancora oggi, soprattutto a livello internazionale. Ma non è più una pratica, è un punto di vista teorico su una società capitalistica, tanto diversa da quella di allora, ma con le stesse divisioni, con ancora più disuguaglianze, con lancinanti ingiustizie, che avrebbero bisogno non di meno ma di più antagonismo, nell’assenza però purtroppo di quel soggetto politico chiamato a rappresentarlo e organizzarlo. Questo è il problema a cui dare soluzione.