Il caso Donald Trump, presidente della plebe, nell’era degli uomini della moneta

Rita di Leo

La perdita di ruolo e funzioni degli uomini che pensano è stata lentissima, sono passati secoli dal cardinale Mazzarino alle spalle del re di Francia sino al politico professionale Dick Cheney alle spalle del secondo Bush, l’erede cadetto ‘creato’ presidente degli Stati Uniti, da suo padre ex presidente, ex direttore della C.I.A, esponente di spicco dell’élite economica Otto-Novecentesca e del partito conservatore. Molti erano gli uomini che pensano, alle spalle del cadetto Bush nei suoi due mandati da presidente: i funzionari della macchina politico-amministrativa, gli esperti dell’apparato economico-militare, e infine gli ideologi neoconservatori, che lo convinsero non solo a calarsi in imprese belliche senza fine ma persino a fargli credere che l’instaurazione della democrazia elettorale ‘all’americana’ era il vero obiettivo etico della guerra contro i talebani e contro l’ex alleato Saddam Hussein.

La parabola dei neoconservatori, quasi tutti di origine est-europea e di pregressa fede rinnegata nel Talmud o nel Capitale, è avvincente per gli effetti a distanza provocati. Il primo effetto è stato l’elezione di un presidente che doveva essere il contrario del cadetto Bush. E dunque nel luogo fisico dove si compivano i prodigi tecnologici della Silicon Valley, con alle spalle la potenza dell’élite finanziaria cosmopolita, matura l’avventura di un presidente non bianco che si considera un uomo-idea. Intorno a lui ammette solo esperti di questioni specifiche, ma il merito di capirle sta a lui, al comandante in capo, ex community organizer, ex professore di diritto, ex avvocato, ex senatore di Chicago, scrittore di successo. Divenuto presidente della superpotenza strategico-militare, fa bellissimi discorsi da poeta/profeta, è ben accetto all’élite finanziaria, è un beniamino dello strato intellettuale, è appassionato dei prodigi dell’information technology sino a farne uso non solo nella campagna elettorale, e nella gestione politico-amministrativa, ma anche nell’uso privato di un ‘suo’ cellulare. Quando termina i due mandati, un bilancio al positivo della sua ‘alterità’ rispetto al cadetto Bush, non è così unanime. L’uomo-idea all’opera nella Casa Bianca ha deluso i suoi sostenitori, dall’establishment progressista urbano all’élite finanziaria che si aspettava un qualche contenimento dei titani del petrolio e della economia manifatturiera tradizionale; nelle vicende belliche si è fatto influenzare dagli strateghi dell’apparato militare, ha considerato imprescindibile il declino del ceto medio, così tanto marginalizzato dall’informatica e dalla delocalizzazione manageriale, ha più o meno ignorato il destino di città operaie e delle zone minerarie, colpito dalla globalizzazione e infine si è tenuto distante dalla massa afro-americana che aveva entusiasticamente votato lui perché nero ma il nero alla Casa Bianca era figlio di un politico africano studente ad Harvard e di una antropologa cosmopolita e dunque era estraneo al mondo degli ‘uomini di colore’ del suo paese.

La presidenza Obama, ritenuta da tutti alternativa a quella del cadetto Bush, ha avuto un effetto quasi uguale sugli uomini della moneta che si son presi sempre maggiore spazio, puntando sulla diffidenza peculiare al paese per gli uomini che pensano rispetto agli uomini che fanno. Trump è il primo “uomo della moneta” assurto alla massima carica politica. Dietro Carlo V, il re-imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole, vi erano i banchieri Fugger. Dietro Donald Trump vi è il suo business: è un immobiliarista che costruisce alberghi di lusso e campi da golf nel suo paese e in giro per il mondo. Politicamente è un outsider rispetto allo stesso partito repubblicano, che al suo esordio non lo ha sostenuto e anzi criticato tramite i media conservatori.

Il presidente cui succede è un intellettuale illuminista, è un incidente di percorso per il sistema politico americano. Prima di Obama la carica è stata solitamente tenuta da politici non professionali, figli cadetti, persino attori, scelti dalla comunità del big business come i due Bush. La sola reale eccezione è stato il vice presidente, divenuto presidente per la morte di Kennedy, Lyndon Johnson, che era un politico professionale in grado di piegare il Congresso e il Senato alle sue strategie, interne e internazionali. Gli altri: Carter, Nixon, Reagan e Clinton hanno agito adeguandosi – chi più chi meno – alle richieste di chi li aveva fatti eleggere. Sempre però avvalendosi delle istituzioni federali, e con l’assistenza di esperti nelle questioni interne al paese e al resto del mondo. Alcuni casi-nomi sono famosi: Henry Kissinger, la Albright, Dick Cheney. Anche i due Bush, padre e figlio presidenti, uomini simboli dell’alba dell’‘età della moneta’, hanno governato con la mediazione della burocrazia politica federale. Venivano dal business del petrolio e l’hanno ben difeso ma hanno rispettato i giochi della finanza globale, mentre quasi non si sono resi conto delle opportunità dell’information technology. Prova ne è il Patriot Act, la legge del 2003 che metteva sotto controllo il cittadino sospetto di origine mediorientale, così anacronistica al confronto delle tecnologie di controllo già esistenti.

I disastri di Bush figlio non sono stati né le restrizioni in politica interna e né l’economia, ma le guerre medio orientali: per come sono state decise e per come sono state perse. Hanno causato disastri geopolitici che il mondo intero sta scontando, sconvolto da mille fuochi. Ad aver avuto la spinta da quei fuochi è l’uomo della moneta, entrato alla Casa Bianca. Da quei fuochi ha ricavato la conferma della sua concezione di un mondo, diviso tra amici e nemici dell’America, e nel paese tra fedeli e infedeli rispetto al mito dell’eccezionalità del paese. I “fedeli” vivono in provincia, gli “infedeli” in città. Trump ignora le categorie di Carl Schmitt ma le usa d’istinto. Un forte istinto politico che gli ha spianato la strada del potere.

Con una operazione politica audace Trump si è autonominato il rappresentante dell’operaio maschio bianco cristiano, emarginato dalla tecnica e dalla delocalizzazione delle manifatture in terre lontane. Ha capitalizzato a suo favore le conseguenze umane della deindustrializzazione degli ultimi decenni. Ha promesso il rientro in patria di 25 milioni di posti lavoro, dispersi nel resto del mondo a causa dei businessmen ammaliati dalla globalizzazione. Nel suo programma sono in evidenza i bisogni di coloro che con il lavoro hanno perso la propria professionalità e anche la condivisione di principi, tradizioni, costumi peculiari a gran parte del paese. Ha aperto persino ai sindacati partecipando ad un loro pubblico evento dove ha ribadito la sua intenzione di far tornare il lavoro industriale nei luoghi dove era nato.

Il successo avuto è dovuto al parallelo disimpegno per l’universo del lavoro da parte della sinistra, partiti politici, movimenti di opinione, media ‘progressisti’. Per i rappresentanti dell’universo del lavoro la chiusura di una fabbrica è l’evaporarsi nel nulla di coloro che vi lavoravano, fantasmi del passato industrialista. Come è noto dai bisogni degli operai la politica liberal si è spostata verso i diritti universali delle minoranze. Verso il voto dei neri, dei latinos, degli asiatici, verso le unioni omosessuali, verso le disparità donna-uomo, verso i drogati, gli alcoolisti e così via. Agli occhi dell’operaio di Detroit, nessuna di queste traversie vale quanto la perdita del ‘suo’ posto di lavoro che il sindacato non ha difeso, che il partito tradizionalmente votato non ha più messo nel programma elettorale. Secondo le statistiche ufficiali nel 2016 solo l’8% degli operai era occupato in stabilimenti industriali, il resto della manodopera lavorava nei servizi, a tempo determinato e con retribuzioni non contrattabili.

Eppure il mondo dell’aristocrazia operaia bianca degli anni cinquanta rimane il miraggio dell’uomo del lavoro. Quel miraggio è stato riproposto con sofisticate tecniche comunicative, dal nuovo presidente, utilizzatore convinto di quelle tecniche. Infatti nel concreto, la gran parte della sua prima partita elettorale l’hanno giocata e vinta i tecnici informatici. Molto ha contato il noto ‘computer scientist’ – Robert Mercer, il miliardario che si è dato la missione “to take back culture”, e che ha usato le possibilità proprie all’information technology, finanziando siti come Breitbard, e utilizzando think tank come ‘Media Research Center’, ‘Cambridge Analitica’, specializzati in strategie di management elettorale e in operazioni di informazione capillare di tipo socio-psicologico: nei loro file vi sono le schede di 220 milioni di elettori potenziali. Le schede sono state realizzate grazie a Facebook, vale a dire grazie all’invenzione di Mark Zuckerberg, il golem del tempo presente. Mirate agli elettori non urbani, quasi come in un reality show, sono tornate protagoniste, a cura della Fox e dei media provinciali, fiction con protagoniste laboriose famiglie senza divorzi, anti abortiste, figli maschi in carriera, figlie obbedienti al padre, al marito, vicini di casa, bianchi per colore della pelle, di gran fede religiosa, di gran rispetto per chi è riuscito a diventare ricco, di gran disprezzo per il governo federale, e tanta diffidenza per gli ebrei, specialmente per quelli laici. Gran clamore hanno fatto i media liberal perché in occasione del discorso per il ‘Giorno della Memoria’, Trump non ha usato la parola ebreo. Ancora una volta ha così dato prova del suo forte istinto politico poiché coloro che lo votano sono tradizionalmente antisemiti. Difatti da quando è in carica, si sono moltiplicati atti ostili contro gli ebrei. Lo ha per primo denunciato Haaretz, l’organo di stampa progressista israeliano mentre negli Stati Uniti prevale il disinteresse dei media con qualche eccezione (il New York Times). In paradossale parallelo alle ostilità contro l’anonimo ebreo americano, vi sono le iniziative a favore del governo di Israele nella convinzione che “i suoi” elettori non ne verranno a conoscenza.

Trump valuta un’opportunità la diffidenza plebea nei confronti del politically correct dell’establishment. Bolla come ’estraneo’ al paese quel coacervo di culture e di politiche ispirato al multiculturalismo, all’attivismo sociale, alle esperienze europee. Quel coacervo ha costantemente influenzato l’aria dei grandi centri urbani, e di coloro che vi lavorano nelle istituzioni federali e private che contano. Da Wall Street alla Federal Reserve, alla Silicon Valley. E infatti una gran parte degli esponenti del settore che più ha contribuito al primato economico contemporaneo del paese, i protagonisti dell’information technology, sono ostili a Trump sin quando non si rendono conto che le sue scelte aprono orizzonti vantaggiosi anche per le loro attività.

Da parte di Trump l’ostracismo per l’establishment culturale e politico ha quasi l’odore del “maccartismo” degli anni cinquanta, allora si trattava di spazzar via i residui del clima politico-culturale del Novecento, mentre nel XXI secolo l’obiettivo è duplice, da un lato c’è l’avversione per i critici della “sua” Casa Bianca appena conquistata, dall’altro lato c’è l’intenzione di trarre profitto dallo scontro tra diritti e bisogni, tra gli intellettuali liberal, rappresentanti dei diritti universali e i lavoratori manuali portatori di bisogni privati. In questione sono la cultura di ispirazione illuminista e un qualsiasi legame preferenziale con l’Europa. E più ancora con l’Unione Europea.

Il 3 marzo 2017 è stata pubblicata dai mass media la foto di un ministro che va al lavoro a cavallo, con il cappello di cow boy. Quell’immagine vuole essere la prova del cambiamento avvenuto alla guida del paese agli occhi di chi il cappello da cow boy lo usa realmente. In concreto gli slogan America great again e America first significano la quantità di beni industriali da tornare a produrre e vendere in casa, l’intenzione di evitare guerre, con la minaccia di usare l’apparato strategico-militare più potente al mondo, con le sue basi presenti ovunque, con i suoi droni, i suoi missili. Nel suo insieme l’immagine riporta al tempo della vittoria nella seconda guerra mondiale, ed è offerta a quella parte dell’America che vi è rimasta legata. I nemici interni presi di mira sono tutti coloro che sono ammaliati dalla cultura urbana, laica, cosmopolita, filo-europea. Gli amici interni sono i lavoratori maschi bianchi, le organizzazioni antiabortiste e antiomosessuali, le istituzioni religiose come quelle ’dei cristiani evangelici’.

Nel XXI secolo è entrato alla Casa Bianca un presidente che si dichiara a fianco di quella parte del paese che crede nel creazionismo, nella superiorità dell’uomo bianco, nel ruolo subalterno della donna, nella diffusione di pistole e fucili alle famiglie, nell’estraneità per la cultura, nella diffidenza per lo straniero. Le sue dichiarazioni appaiono finalizzate alle sue politiche ma potrebbero anche essere autentiche. In ambedue i casi emarginata è la parte del paese, quella che era sempre disponibile ad eleggere un candidato – repubblicano o democratico che fosse – purché “intrinseco” all’ambiente del Guggenheim Museum e del New York Times.

L’ostracismo per l’establishment riguarda innanzitutto l’élite politica, quella di ambedue i partiti, e poi gli alti funzionari delle istituzioni amministrative, e infine gli esponenti della cultura cosmopolita, filo europea, laica, illuminista. E costoro vengono solitamente attaccati usando l’arma del denaro: agli studenti dell’Università di Berkeley che protestavano per il bando agli immigrati, la reazione è stata la minaccia al rettore di non dare i 400 milioni di dollari federali al centro ricerche dell’Università. Alle ONG che sostengono l’aborto, le unioni omosessuali, e l’autonomia delle chiese sono stati diminuiti i sussidi federali. Alle chiese e alle istituzioni private che si adoperano contro quelle ONG si sono promesse meno tasse. E più prosaicamente la catena di negozi che ha deciso di non vendere più le merci prodotte dalla figlia del presidente è stata aspramente e pubblicamente rimproverata dal businessman divenuto presidente degli Stati Uniti.

Incurante della Costituzione del 1776, l’uomo della moneta, divenuto “capo di stato”, interpreta i compiti del presidente verso il paese come se il paese fosse una “sua” impresa. Il suo approccio prevede dipendenti-seguaci-fedeli, cancelli sicuri alle porte dell’America ed è attratto verso il modello di stato-nazione, in contrasto con la specificità federale del paese. Il suo approccio è non delegare ai politici professionali il governo del paese ma di assumerlo direttamente, tramite la promozione a cariche politiche di uomini del business, da legare a sé con il nazionalismo economico e il sostegno all’apparato strategico-militare.

Costruire campi da golf e alberghi di lusso dappertutto, persino nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche, è il business del presidente il quale però era sempre rimasto sulla soglia della comunità del big business, dove è entrato solo grazie alla vittoria elettorale, divenendo in grado di nominare ministri nomi importanti tra gli uomini della moneta. E di emarginare gli uomini eminenti del partito repubblicano, ribadendo il suo distacco dall’establishment precedente. Sempre nella certezza che ignorino l’esistenza stessa di quella parte del paese che legge il New Yorker, Politico.com, Slate, Wired, nomina ministri, giudici della Corte suprema, ambasciatori, con un’arbitrarietà inusitata.

Diversamente dall’élite politica, l’élite finanziaria ha una sua autonomia mentre ambigua è la posizione degli imprenditori manifatturieri cui platealmente è stato ingiunto di restituire “agli americani” i posti di lavoro, da decenni delocalizzati dal Messico alla Cina. La rilocalizzazione in patria è difficile da imporre in un paese dove il laissez-faire del business è un articolo di fede e dove il business esalta la tecnologia che riduce il lavoro dell’uomo. Le previsioni per l’immediato futuro sono per la preminenza dei robot e non dell’operaio specializzato che appartiene a una fase dell’economia reale ormai alle spalle.

Con il suo ostentato ostracismo per coloro che sanno, Trump ha sospinto l’élite, a lui non ostile a vedere i vantaggi di un legame con la “sua” base elettorale plebea. La linea di divisione è tra coloro che sanno soltanto ciò che ascoltano dalle radio e tv locali, manipolate dai poteri locali, e dunque sono accreditati come potenziali elettori e gli altri, vale a dire coloro che sanno che cosa succede nel mondo, anche semplicemente guardando la CCN. Sono costoro da sospettare, più o meno platealmente, di non essere interessati a difendere il paese dalla concorrenza della Cina, dalla minaccia dell’apparato strategico-militare russo. Nei loro confronti Trump usa l’arma del conflitto ideologico. Non quello del passato, da un lato i lavoratori, dall’altro i datori di lavoro. Il suo conflitto ideologico ha come obiettivo coloro che la pensano diversamente dal popolo, e dunque vanno considerati “i nemici del popolo”. Trump usa proprio l’etichetta di “nemici del popolo” per chi ha una cultura e un orientamento di vita, alieni a più di metà degli abitanti del paese.

Tra “i nemici” vi sono innanzitutto i più prestigiosi mass media, e di concerto coloro che nel pensare e nel fare hanno autonomia. Sinora l’autonomia consisteva nel poter avere e manifestare idee proprie, compresa la valutazione dell’attività del governo in carica con le sue politiche. E chi lo analizzava criticamente – scrivendo articoli, libri, facendo ricerche – non trovava ostacoli se si esclude il breve periodo del maccartismo. L’assunto di base era che l’analisi critica del potere nelle sue componenti era intrinseco al mestiere dell’intellettuale. Se il senso comune corrente è sempre stato anti intellettuale, tuttavia il mestiere di intellettuale è sempre stato “ammesso”. Con Trump è il mestiere stesso dell’intellettuale a essere messo in discussione nelle sue responsabilità per tutto quanto il paese ha vissuto da quando è divenuto una potenza globale, e dunque dal 1945 e ancor più dal 1989. Da quando ha operato perché fosse dismessa la fede isolazionista nella propria autosufficienza che teneva il grande paese slegato dal resto del mondo. In tal senso generano diffidenza non solo i media più importanti, le grandi università, i centri di ricerca ma persino i think tank conservatori giacché anche criticare il multiculturalismo significa accettarne l’esistenza. Si moltiplicano gli avvertimenti ai media locali – minori introiti pubblicitari in conseguenza di notizie estranee agli eventi locali – che preoccupano anche gli storici bastioni del giornalismo indipendente, le grandi testate nazionali, peraltro già colpite da reprimenda pubbliche del presidente.

Nella concezione del mondo di Trump sono il fare e l’avere le leve che fanno funzionare il paese e non le idee e tanto meno coloro che per mestiere le propongono al potere. Agli esordi della presidenza è stata la prospettiva “del nuovo ordine politico”, immaginata da Bannon, all’epoca il chief advisor di Trump ad avere successo con Trump. Nella visione di Bannon: “Quello che noi oggi stiamo sperimentando è un nuovo ordine politico e più spavento faremo ai media dell’élite e più potente diverrà il nuovo ordine politico.” (Danner M. What He Could Do, New York Review of Books, March 23, 2017). Nella visione di Bannon il capitalismo si è allontanato dai fondamenti spirituali e morali della cristianità, dall’osservanza della fede ebraico-cristiana. Nella visione di Bannon gli Stati Uniti – con i suoi 51 stati troppo autonomi – sono destinati a trasformarsi in una America-nazione con un’amministrazione esistente solo per le più ‘domestiche’ esigenze e un governo nelle mani del presidente.

Nei primissimi giorni del primo mandato vi è stata quasi uno show dove si vedeva il nuovo presidente firmare una valanga di ordini esecutivi che poi mostrava soddisfattissimo ai fotografi. Nelle intenzioni di chi li aveva preparati e di chi li firmava, gli ordini esecutivi indebolivano le funzioni delle istituzioni politiche e amministrative tradizionali e facevano apparire irresistibile il decisionismo dell’uomo, passato dal management immobiliare al comando del paese. Gli ordini esecutivi hanno però limiti costituzionali e Obama lo aveva constatato dopo aver perso la maggioranza del Congresso e del Senato, due anni dopo essere stato eletto. Appena insediato Trump aveva la maggioranza di senatori repubblicani ma non la fiducia degli esponenti repubblicani più importanti, preoccupati quanto i politici democratici, della sua gestione del paese. Il decisionismo di Trump è in contraddizione con la gestione, formalmente nelle mani di chi ha vinto le elezioni ma sostanzialmente in quelle di chi le ha pagate, dal big business all’élite finanziaria. Il funzionamento politico-amministrativo del paese è in contrasto con le intenzioni del presidente, orientato a potenziare il suo decisionismo.

Trump si è mosso come fosse un principe assoluto e non come un presidente eletto. Come se la Casa Bianca fosse divenuta una reggia con intrighi quotidiani tra i preferiti del re. “Il re” è un presidente che non era inizialmente sorretto dal suo partito. Un presidente che con l’élite finanziaria ha relazioni ispirate al suo principio divisivo, con amici e nemici persino in quel mondo.

Nell’universo degli uomini della moneta l’apprendistato del primo di loro che ha conquistato la massima carica politica, può rovesciare la vittoria in una sconfitta. Può diventare un azzardo la mancanza di una gestione degli affari correnti, non più affidata a funzionari professionali. Il potere rischia di non avere futuro se fondato solo sulla capacità di comando di un ristretto cerchio di fedeli. Restituire il posto di lavoro agli operai bianchi, e far tornare il patriarcato nelle relazioni familiari sono assiomi ideologici che aiutano a vincere le elezioni, ma – come si sa – dal giorno dopo la vittoria elettorale serve un governo con un rapporto pattuito e concreto con i responsabili ufficiali dell’assetto sociale esistente.

Il primo uomo della moneta arrivato alla Casa Bianca non ha una politica interna e ancor meno una politica estera, persuasosi della necessità di rovesciare quelle esistenti. Nell’età degli uomini della spada i principi si combattevano per la conquista di territori e di popoli, si facevano guerre di religione, cattolici contro protestanti, cristiani contro musulmani. Il primo atto di guerra del primo uomo della moneta, divenuto presidente della prima potenza globale, ha riguardato i dazi sull’acqua minerale italiana e sul formaggio francese. Parochial è l’intenzione di mostrare ai suoi elettori e al mondo che non è una mera promessa elettorale quella di rendere l’America great again. Quel great viene differentemente interpretato dai critici e dai sostenitori. I critici considerano la restaurazione in corso una regressione in politica, in economia, nel diritto, nella cultura. I sostenitori si sentono liberati dall’incubo Obama – con quel suo politically correct – in contrasto con il senso comune di un paese dove è la forza la prima virtù. I sostenitori sono per legami privilegiati con gli altri capi di stato decisionisti così come è il presidente appena eletto. I sostenitori si considerano coinvolti in una fase storica conservatrice, con forme e contenuto intrinseche alla tradizione del paese, quella di Andrew Jackson, di Eisenhower, di Reagan (v. il saggio di Walter Russel Mead “The Jacksonian Revolt”, Foreign Affairs).

Vi è infine la sua base elettorale – il lavoratore manuale di razza bianca – corteggiata con il fiuto dell’uomo di affari che ne fa il suo maggior successo politico. Ha festeggiato il 100° giorno di presidenza, lontano dalla Washington dei politici, ad Harrysburg, in Pennsylvania, tra i suoi elettori cui ha ribadito le promesse, dal lavoro da far tornare in patria al muro da costruire contro gli stranieri.

Intanto “i nemici del popolo”, annidati nei grandi giornali, pubblicavano l’elenco dei politici repubblicani che si stavano adattando al dispotismo della Casa Bianca. La parte del paese che gli è ostile si ritrova come presidente un businessman, circondato da parenti, e da individui che temono di essere ‘licenziati’ per anche una sola parola impropria – come accade nei regimi dispotici asiatici. Chi gli è accanto gli sussurra la sua versione di ciò che accade nel paese e nel mondo, che il presidente conosce solo attraverso gli affari conclusi: un albergo in Florida, un campo di golf in Scozia, e così via. I “nemici del popolo”, guardano ai pochi e bistrattati politici professionali rimastagli accanto, nell’ipotesi si attivino affinché possano suggerirgli come fare politica, innanzitutto quella estera giacché è in gioco l’egemonia della prima potenza strategico-militare.

Nella percezione del presidente la sua quotidiana gestione del comando appare fine a sé stessa, simile a quella dell’età della pietra. Con i droni, gli algoritmi e gli hacker al posto delle pietre. L’agire quotidiano dell’uomo della Casa Bianca simboleggia la caduta agli inferi degli ‘esperti’, da quelli dei think tank agli studiosi generalisti dei centri di ricerca, e dunque gli uomini che per “mestiere” pensano. Un mestiere che apparentemente non riguarda il fare e l’avere, e apparentemente non presuppone l’uso della forza, la ricerca dell’interesse privato e per ciò stesso è alieno al senso comune.

Le migliaia di ‘cinguettii’ dell’uomo della Casa Bianca hanno la funzione della spada del principe, il suo approccio politico ha come interlocutore privilegiato il suo elettore plebeo. I tweet hanno sostituito gli esperti che stavano alle spalle del principe e gli sussurravano in cosa consisteva il governare. La sua specificità identitaria sta nella pubblica legittimazione dell’antropologia plebea dei suoi elettori.

Nel discorso comizio dopo l’assoluzione dal primo impeachment, il Presidente ha dichiarato “ci riprenderemo la Camera alle prossime elezioni, noi che siamo il partito dei lavoratori, della famiglia e del sogno americano” (10 febbraio 2020). Dopo un avvio diffidente gli uomini dell’establishment conservatore hanno preso a valutare positivamente i vantaggi di utilizzare l’antropologia culturale plebea, e a considerare nemici la minoranza di politici professionali ancora in servizio e di coloro che pensano in autonomia.

L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, il secondo impeachment da cui è uscito indenne, inducono a guardare alla presidenza Biden come a un intermezzo di breve durata.

(saggio pubblicato su https://uniroma1.academia.edu/RDiLeo)