«Non gli operai di Manchester, ma quelli di Detroit» Johnson-Forest Tendency, Socialisme ou Barbarie e l’operaismo italiano

Matteo Montaguti

Introduzione. Fili rossi

L’operaismo italiano degli anni Sessanta, analogamente all’esperienza americana della Johnson-Forest Tendency (JFT) e di quella francese di Socialisme ou barbarie (SoB), nasce come un tentativo di risposta politica – sul piano della produzione teorico-pratica – alla crisi e alla stagnazione del movimento operaio degli anni Cinquanta, contrassegnato da un sostanziale scollamento rispetto agli operai e ai conflitti di fabbrica proprio in un momento di cruciale e accelerata trasformazione del capitalismo industriale e della classe stessa. La visione e le analisi delle organizzazioni “ufficiali” restavano infatti ancorate a una rappresentazione statica dello sviluppo capitalistico del Paese e a modelli ormai inadeguati per comprendere una composizione di classe in veloce mutamento (e movimento).

In particolar modo ai suoi esordi, l’atmosfera intellettuale dell’operaismo viene a porsi all’incrocio di molteplici influssi ed esperienze composite, anche molto differenti o contraddittorie tra loro: nel proprio crogiuolo si intrecciano, contaminano e fondono, infatti, influenze di minoranze storiche bordighiste, trotzkiste, luxemburghiane e nuove riflessioni scaturite dall’ambiente sociologico statunitense, suggestioni provenienti da realtà organizzate americane e francesi ed elaborazioni di intellettuali socialisti e comunisti (più o meno eretici) italiani.

Nell’intricata matassa che costituisce la cassetta degli attrezzi del metodo e dello stile operaista, di cui molto si trasmetterà successivamente all’Autonomia, si può notare un filo rosso che collega l’esperienza statunitense della JFT degli anni Quaranta (qui https://bataillesocialiste.wordpress.com/pagine-italiane/2004-04-la-tendenza-johnson-forest-e-il-mondo-doggi-goldner/ e qui http://archivio.commonware.org/index.php/cartografia//646-nota-su-grace-lee-boggs per un approfondimento) a quella italiana degli anni Sessanta, un filo che passa molto chiaramente per la Francia degli anni Cinquanta di Socialisme ou Barbarie, prima dell’esplosione del Maggio ‘68.

Trait d’union: Danilo Montaldi

La figura fondamentale di raccordo tra tutte queste esperienze fu senza alcun dubbio Danilo Montaldi, intellettuale, ricercatore sociale e militante di base cremonese della Sinistra comunista (ambienti internazionalisti e bordighisti), accomunato ai due gruppi ex trotskisti da affinità antiburocratiche e antistaliniste. Egli fu l’autore delle prime ricerche tra le realtà proletarie invisibili allo sguardo del movimento operaio ufficiale, pubblicate successivamente in Milano, CoreaAutobiografie della leggera e Militanti politici di base.

Verso la fine del 1953 il ventiquattrenne Montaldi si reca per la prima volta a Parigi e vi resta per più di un mese. In questo lasso di tempo entra in contatto con il gruppo di militanti e intellettuali che pubblica «Socialisme ou Barbarie», segnando l’inizio di stretti rapporti politici tra Cremona e Parigi che dureranno per molti anni, a cui successivamente attingeranno largamente anche i protagonisti di «Quaderni rossi» e «Classe operaia»: è attraverso queste relazioni che molte idee, suggestioni e strumenti partoriti dalla Johnson-Forest Tendency di C. L. R. James e Raya Dunayevskaya negli anni Quaranta – e riprese a seguito dal nucleo francese – filtreranno nel contesto italiano. Un contesto in cui, con notevole ritardo rispetto alle due sponde atlantiche, cominciava lentamente a farsi largo il sistema di produzione fordista-taylorista e il soggetto correlato dell’operaio di linea dequalificato e alienato, il cosiddetto “operaio-massa” (non si dimentichi che l’introduzione della catena di montaggio alla Fiat Mirafiori è del 1954, praticamente contemporanea).

Dall’incontro di Montaldi con SoB scaturiranno frequenti reciproci contatti e un regolare scambio di lettere con Daniel Mothé, l’unico vero operaio del gruppo, impiegato alle officine Renault-Billancourt e animatore di «Tribune Ouvrière», il giornale operaio clandestino autoprodotto dai lavoratori dello stabilimento, del quale nel 1959 Montaldi tradurrà il Journal d’un ouvrier (pubblicato da Einaudi nella collana diretta da Raniero Panzieri). Ma prima di questo, nel 1954 l’intellettuale cremonese traduceva dal francese The American worker di Paul Romano, testo già apparso su «Socialisme ou Barbarie», e lo pubblicava a puntate sulla rivista «Battaglia comunista». Citando dalla sua presentazione del testo:

Tanto L’operaio americano che il giornale «Correspondence» [pubblicazione della JFT una volta separatasi dal movimento trotskysta, ndr] esprimono con molta forza e profondità questa idea, dal movimento marxista praticamente dimenticata dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, che l’operaio è innanzi tutto un essere che vive nella produzione e nella fabbrica capitalista prima di essere l’aderente di partito, un militante della rivoluzione o il suddito di un futuro potere socialista; e che è nella produzione che si forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di costruire un tipo superiore di società, la sua solidarietà di classe con gli altri operai e il suo odio per lo sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni classici di ieri ed i burocrati impersonali di oggi e di domani. Lo sviluppo di questa idea fondamentale è l’apporto principale del gruppo [Correspondence] al movimento rivoluzionario contemporaneo. Ma il valore documentario del libro di Paul Romano risiede anche in questo: che rivela come sia universale la condizione operaia. Per questo noi invitiamo i compagni, gli operai, i lettori a scrivere a «Battaglia»confrontando la propria situazione con quella dell’“operaio americano”, vale a dire con l’operaio di tutti i Paesi, con l’operaio per quello che è là, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa.

Il ricercatore cremonese rimarrà profondamente influenzato dallo stile d’intervento della JFT filtrato dai francesi: la ricerca della presa di parola operaia diretta come condizione dello sviluppo di conflitto e organizzazione, il tentativo di legare l’inchiesta sulla realtà proletaria con il movimento rivoluzionario comunista, di stabilire un nuovo rapporto veramente “organico” tra intellettuali e classe operaia, non più vista questa come vittima passiva necessitante di direzione esterna ma come soggetto protagonista della propria liberazione, anche a costo della rottura con le proprie organizzazioni storiche. Nel 1958 Montaldi scriveva:

da parte dei militanti della sinistra rivoluzionaria, molto spesso l’isolamento nel quale si sono trovati ha deformato la loro visione: tanti compagni saranno magari informatissimi sul numero preciso dei tronconi in cui si è spezzata la Quarta Internazionale, o sulle molteplici interpretazioni della teoria dei Consigli, ma ignorano le condizioni attuali dei lavoratori, ma non sanno niente, o pochissimo, delle paghe contadine. Eppure è da questo che bisogna partire se si vuole “riformare la coscienza” mistificata dei proletari. Partire dai loro problemi aziendali, dalle loro rispettabilissime lamentele quotidiane per arrivare a comprendere l’atteggiamento dei sindacati; per vedere insieme e dimostrare loro come i sindacati svolgano una politica opportunistica; ricollegare questa politica alla degenerazione dei partiti operai, la quale è ormai un fatto storico, datato, controllabile, che ha le sue chiare ragioni storiche in relazione con l’imperialismo, con la degenerazione dello Stato russo; dire loro che nel pane che mangiano questi fatti ci sono dentro tutti, che la battaglia per il pane fa da lievito alla riscossa per l’emancipazione delle forze del lavoro. Combatterla con loro questa lotta, che non si basa su sfumature bizantine, ma è molto concreta e quotidiana. (1958)

Si trattava, insomma, di ricominciare ad avvicinarsi alla realtà del presente, qui ed ora: esauritasi l’impostazione letteraria tendente ad esaltare una classe operaia astratta, era opportuno rivolgere gli occhi ai protagonisti stessi e immediati delle lotte, abbandonando inutili incrostazioni ideologiche.

A partire dalle prime indagini condotte sulle realtà produttive e sulla classe operaia cremonesi, Montaldi cominciava a utilizzare per la prima volta quel tipo di approccio di ispirazione statunitense mutuato dai propri scambi con l’ambiente francese, tuttavia rielaborandolo in forme e contenuti inediti. Contro un marxismo-leninismo “di citazioni”, incancrenito nell’ortodossia e nei dogmi di partito, rimodulava gli esempi acquisiti di inchiesta operaia in una forma embrionale di conricerca, basata su una stretta interazione comunicativa tra l’intervistato e l’intervistatore. Inizialmente basato sull’utilizzo di autobiografie, nell’esperienza di Danilo Montaldi questo metodo assumeva una nuova valenza: se la soggettività protagonista era la classe stessa che si autodeterminava e non le organizzazioni ormai da essa separate, diveniva una necessità politica costruire dall’interno, nella prassi e nell’analisi sociale, la teoria rivoluzionaria, mediante una ricerca volta a indagare minuziosamente le forme di consapevolezza (microconflittualità, lotte, esperienze di vita e aggregazione) di quella realtà di base avente come orizzonte quotidiano lo sfruttamento capitalistico. Attraverso la combinazione di indagine sociologica (o meglio, dell’uso marxista della sociologia), storia orale e narrazione, la conricerca rappresentava per lui il mezzo per meglio comprendere la realtà dell’esperienza proletaria – elemento centrale nell’elaborazione di Claude Lefort, intellettuale e militante di SoB – allo scopo di mettere a fuoco gli obiettivi della prassi emancipatrice. In Montaldi – che si pone in netta rottura con il movimento operaio ufficiale italiano, teso a integrarsi nel neocapitalismo e disinteressato ai tentativi di comprendere l’intreccio tra permanenze e modernizzazioni al fine di capovolgerlo radicalmente – la conricerca non solo dava luogo a un’accurata ricostruzione di autobiografie esemplari, ma diventava uno degli strumenti della prassi rivoluzionaria. In questo processo veniva determinata grande importanza ai “militanti politici di base”, vero partito disperso della classe, composto da compagni che potevano avere anche tessere diverse ma che, in prospettiva, costituivano l’embrione di una ricomposizione politica complessiva.

A partire da questo momento, intorno al ricercatore cremonese si formava un “gruppo di studio”, divenuto poi Gruppo di Unità Proletaria, dedito ad attività di inchiesta e di intervento politico, con stretti contatti e rapporti di scambio con variegate realtà affini: oltre che con Socialisme ou Barbarie, anche con il «Tribune ouvriere», il «Pouvoir Ouvrier» belga, il «Solidarity for workers’ power» inglese, con «News & Letters» di Chicago (Raya Dunayevskaya) e «Correspondence» di Detroit (C.L.R. James e Martin Glaberman). Il giornale pubblicato dal gruppo tradurrà e darà sistematicamente spazio agli articoli, ai documenti e alle posizioni prodotte da questi nuclei legati da un discorso e da una pratica affine, contribuendo a introdurli nel contesto italiano e a sprovincializzarne le riflessioni. La differenza che fin da subito si riscontrava tra questo microcosmo internazionale e l’Italia era sicuramente quella dell’effettiva partecipazione dei lavoratori, che sarà sempre limitata generalmente a uno o due operai per i gruppi internazionali, mentre nelle esperienze italiane si riscontrerà fin dall’inizio una ben più allargata base operaia.

Da Detroit a Torino: Romano Alquati

Del gruppo cremonese faceva parte anche Romano Alquati, su cui Montaldi ebbe un peso e un influsso determinante e attraverso il quale alcuni suoi insegnamenti vennero rielaborati e trasmessi indirettamente al filone operaista.

Nel 1957 Alquati e Montaldi si recano in Francia, dove allargano i contatti personali con i principali animatori di SoB: Edgar Morin, Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, Lyotard e Barois. Castoriadis stesso nel 1961 soggiorna in Italia, ospite di Montaldi, per incontrare i vari gruppi milanesi, genovesi e torinesi che insieme ai veneti e ai romani si stavano coagulando intorno ai «Quaderni rossi».

Alquati nei primi anni Sessanta lasciava l’ambiente cremonese per approdare a Torino, dove si univa alla rivista di Raniero Panzieri (con cui collaborerà per i primi numeri anche Montaldi), per poi essere protagonista della successiva esperienza di «Classe operaia».

Egli, molto più avanti, affermerà esplicitamente che per capire l’operaietà e l’effettiva soggettività operaia era stato profondamente influenzato dai giornali operai di fabbrica della Renault legati a SoB, dai diari e dai romanzi sulle storie di vita di operai-massa americani e in particolar modo dalla figura e dall’opera di Daniel Mothè, con cui intrattenne scambi epistolari e di cui utilizzò il Diario di un operaio come punto di partenza per le proprie ricerche nelle fabbriche piemontesi. Del militante di fabbrica francese veniva interiorizzata la concezione degli operai non più come monumento mitizzato della sinistra, o come solamente braccia e stomaci da educare, ma come persone complessive e complesse con propri valori e quotidianità, proprie sofferenze e memorie, propri immaginari e desideri, propri piaceri e gratificazioni materiali e spirituali. Alquati in un’intervista dichiara:

la Francia ripeteva, con venti o trenta anni di ritardo, una vicenda americana che era poco conosciuta in Italia. È la vicenda della storia dell’industria, del taylorismo, […] l’interesse per un certo tipo di rapporto con gli operai nella ricerca, per un certo tipo di intervento ecc. Era uscito allora da Feltrinelli un importante libro di storie di vita operaia, di James Boggs, un altro che si chiamava Paul Romano, che Tronti poi ha cercato, per provare a pubblicare qualcosa sui «Quaderni rossi». Questo libro di Feltrinelli era una raccolta di storie intitolata L’uomo alla catena di montaggio. Quindi: molta America attraverso la Francia e poi l’Italia seguiva. Erano esattamente gli stessi modelli, ma trapiantati in una situazione un po’ diversa, con un notevole ritardo. Noi sapevamo in anticipo tutto quello che sarebbe successo in Italia. Il sindacato non aveva fatto questi studi e queste ricerche e tanto meno li avevano fatti i partiti di sinistra. […] Lo storicismo sembrava possedere una verità eterna sugli operai, mentre non era vero niente: non sapevano proprio nulla e non ne capivano più nulla. Questo sapere sulla fabbrica è stato ricostruito da noi, con questo percorso, cui abbiamo dato un’impronta nettamente operaista.

Il gruppo di militanti operaisti non poteva negare che le riflessioni dell’ambiente francese legato a Socialisme ou Barbarie, insieme agli studi di «Correspondence», fornissero un’evidenza sostanziale di quelle che essi ritenevano le loro intuizioni più importanti, da cui partire per un nuovo tipo di intervento: che l’antagonismo operaio verso l’organizzazione capitalistica del lavoro, anche se spesso contradditorio e ambivalente nella forma, era permanente e universale; che una profonda separatezza strutturale era intervenuta ad allontanare la classe dagli organismi che pretendevano di rappresentarla, sindacati e partiti; che l’esperienza quotidiana e concreta degli operai dentro la fabbrica doveva essere la base per la produzione tanto della teoria quanto dell’organizzazione

Attraverso le due celeberrime inchieste di Alquati sulle «forze nuove» operaie della Fiat (1961) e della Olivetti (1962), venivano alla luce un’intera serie di processi oggettivi e soggettivi tali da gettare le basi per una ripresa della lotta di classe nelle fabbriche. Dentro i reparti cresceva una conflittualità operaia espressa in sabotaggi, sottrazione dal lavoro, scioperi a gatto selvaggio, sostenuta da un’organizzazione operaia informale, invisibile e autonoma dalle organizzazioni ufficiali. Le radici di questo potenziale antagonismo stavano nel nuovo soggetto operaio, l’operaio-massa immigrato, generato dal nuovo tipo di produzione moderno, che aveva socializzato, dequalificato e alienato il lavoro svuotandolo di ogni suo contenuto e valore; un operaio non del tutto dissimile dall’operaio nero di Detroit al centro della ricerca e delle pratiche della Johnson-Forest Tendency.

Alquati cominciava a modellare lo strumento dell’analisi della composizione tecnica e politica di classe, intesa come la relazione tra la struttura materiale della classe operaia e il suo comportamento come soggetto autonomo rispetto sia al Movimento operaio ufficiale che al Capitale, che presto sarebbe diventato sinonimo stesso dell’operaismo e dell’Autonomia. Egli, partendo dalle esperienze di inchiesta operaia americane e francesi, trasformava l’artigianale metodo della conricerca di Montaldi in una vera e propria scienza politica operaia: un’attività insieme di conoscenza e di pratica, destinata non alla mercificazione dei risultati o al loro utilizzo da parte di un soggetto esterno, ma alla diretta costruzione di organizzazione e iniziativa politica antagonista dall’interno e con essi, in modo autonomo. Con la conricerca la produzione di sapere diveniva immediatamente produzione di soggettività e autonomia, l’organizzazione di un’irriducibile interesse di parte direttamente dall’interno della composizione di classe, tale da forzare gli schemi della rappresentanza classica e di abbattere ogni barriera tra militante e operaio, tra avanguardia e classe. Lo stesso Alquati, insieme a Romolo Gobbi, faceva uscire nel 1963 (appena dopo la rivolta di Piazza Statuto) «Gatto Selvaggio», con il sottotitolo «Giornale di lotta degli operai della Fiat e della Lancia», un foglio chiaramente ricalcato sull’esempio del «Tribune ouvriere» francese, dove si inneggiava pubblicamente al sabotaggio delle linee e all’autorganizzazione extrasindacale, che molto anticipò dell’esplosione operaia dell’autunno caldo 1969.

A differenza di Socialisme ou Barbarie, l’operaismo italiano tuttavia non difendeva la dignità del lavoro “professionale”, ovvero il primato del tema dell’alienazione rispetto a quello dello sfruttamento, delle rivendicazioni qualitative rispetto a quelle salariali, per una prospettiva di rovesciameento anticapitalista tramite l’autogestione operaia dei mezzi di produzione. Al contrario: attraverso la rilettura del primo libro del Capitale di Marx all’interno dei comportamenti spontanei dei lavoratori di linea, Mario Tronti in Operai e Capitale “scopriva” che la classe operaia è nemica perfino di se stessa in quanto capitale: è questo il punto di massima contraddizione per i capitalisti, e il compito dei rivoluzionari era quello dell’organizzazione antagonistica dell’alienazione, della pianificazione politica del rifiuto della forza-lavoro di farsi lavoro, della lotta dell’operaio contro se stesso come lavoratore a livello di massa. Non più solo classe in sé, ma anche classe contro di sé, contro il proprio essere merce, contro la propria condizione proletaria, per l’autoestinzione e la fuoriuscita dal capitalismo. Il rifiuto del lavoro sarà l’indicazione di lotta centrale da cui si dipaneranno le successive esperienze nate su questo solco, da Potere Operaio all’Autonomia.

L’esempio proveniente dalla JFT, oltre a rimanere un importante punto di riferimento, secondo Harry Cleaver fu probabilmente oggetto di maggior circolazione e discussione nel contesto italiano che negli Stati Uniti. Del resto, i contatti organici con quell’ambiente americano resteranno una costante per tutto lo sviluppo di quel filone che va da «Classe operaia» a Potere Operaio fino all’Autonomia. Per esempio, nel 1966 Ferruccio Gambino, allora studente ma già militante del gruppo operaista, si recava negli Stati Uniti per un certo periodo, dove incontrava e iniziava un denso scambio intellettuale con molti componenti provenienti e vicini alla JFT:

Uno dei pochissimi gruppi marxisti di cui [Murray] Bookchin avesse rispetto era quello dei cosiddetti operaisti di Detroit. Chiamiamoli così, tanto è capitato a noi in Italia come a loro negli Stati Uniti di non poter più scrollarsi di dosso questo appellativo. Compagne e compagni di Detroit, alcuni dei quali avevano visitato l’Europa nel 1964, mi invitarono a Detroit. Verso la fine di dicembre ero con Seymour Faber, Martin Glaberman, Jessie Glaberman, William Gorman, Dianne Luthmer, George Rawick, e altri, tutti del gruppo di Facing Reality che aveva già una lunga storia alle spalle e che faceva capo a C.L.R. James, lo storico e uomo politico antillano. Li ho conosciuti in un periodo di intensa elaborazione: George Rawick lavorava al suo libro su Lo schiavo americano, mentre Marty Glaberman aveva appena pubblicato un opuscolo sulla condizione operaia che avrebbe lasciato una forte impronta su parecchi giovani operai dell’auto, anche e soprattutto africano-americani, grazie soprattutto alla sua analisi spassionata e tagliente della struttura sindacale. Intanto Jessie Glaberman mi istruiva sul femminismo marxista e mi metteva alla prova con grandi pile di piatti da lavare dopo le riunioni del gruppo. Nei mesi successivi George Rawick ha continuato a seguirmi, a procurarmi materiale, e nell’aprile del 1967 è venuto a New York ed è stato ospite da me per una quindicina di giorni, una specie di seminario continuo di rara intensità sulla storia e la politica statunitense. In sostanza, George mi toglieva dalla testa molte di quelle idee ricevute a cui la Guerra fredda aveva abituato me come molti giovani europei […]. Da tenere presente poi che a cavallo del ‘68 abbiamo organizzato un seminario a Padova a cui ha partecipato anche George Rawick; gli atti di quel seminario sono compresi nel volume Operai e stato, pubblicato dalla Feltrinelli nella nota collana di Materiali Marxisti, poi bruciata dopo gli arresti del 7 aprile del 1979.

Dai neri alle donne, dalla fabbrica alla società

A partire dallo sviluppo dell’autonomia operaia e dalla diffusione della conflittualità in ogni maglia del tessuto sociale e politico, si svilupparono negli anni Settanta le lotte autonome delle donne, sia all’interno dei gruppi di autocoscienza che dei gruppi politici della sinistra. In questo movimento autodeterminato si poteva vedere il tipo di autonomia che C. L. R. James leggeva due decenni prima nella sua analisi delle lotte dei neri negli Stati Uniti: l’autonomia conflittuale di un settore specifico della classe operaia rispetto agli altri. Gruppi come Lotta Femminista, nato da numerose militanti di Potere Operaio e influenzato dall’operaismo, afferrarono il concetto di “fabbrica sociale” legandolo al ruolo cruciale delle lotte fuori dalla fabbrica fordista, di cui protagoniste erano le donne nel lavoro della cura e della riproduzione della forza lavoro. Secondo le femministe, questo lavoro riservato sostanzialmente alle donne si inseriva all’interno del piano del capitale come fondamentale riproduzione della forza lavoro in quanto capitale, contribuendo all’estorsione di plusvalore senza essere nemmeno retribuito.

La linea del genere, come quella del colore, era utilizzata quindi dal capitale per estrarre sempre più plusvalore e rafforzare il proprio comando sui movimenti della classe. Le implicazioni politiche di questa analisi furono colte da Lotta femminista, tra le componenti che animarono la campagna internazionale per il salario al lavoro domestico (Wages for Housework). Rivendicare salario per il lavoro domestico voleva dire innanzitutto due cose: che il lavoro svolto dalle donne in casa era comunque lavoro produttivo – e per questo rivendicavano un salario – e che la lotta delle donne doveva seguire percorsi e strategia autonomi, visto che sindacati e partiti della sinistra avevano occhi solo per i salariati, subordinavano le donne come gruppo specifico e distruggevano il loro potere collettivo autonomo. In un certo qual modo, come C. L R. James aveva indicato per gli operai neri di Detroit, le donne di Lotta Femminista rifiutavano di essere sussunte dalle organizzazioni unitarie, consapevoli di come dalle proprie specificità si potesse ulteriormente liberare e ampliare conflittualità antagonista ben più incisiva che appiattendo le proprie soggettività sull’idea di una classe operaia universalizzante o quanto meno astratta.  

Da qui la lotta per il pagamento del lavoro domestico non retribuito, che doveva essere pagato dal capitalista collettivo, lo Stato, come base materiale dei rapporti di forza che avrebbe al contempo incrementato sia il potere delle donne come gruppo autonomo autodeterminato da specifici bisogni e desideri, sia per riflesso anche quello della classe operaia di fronte al capitale.

Conclusione

Le idee di Marx provengono dalla classe operaia, non come parole e concetti, ma come comportamenti e punto di vista: è questo, in sostanza, il filo rosso che collega le “scoperte” della Johnson-Forest Tendency nel punto più alto dello sviluppo capitalistico degli anni Quaranta alla rivoluzione copernicana dell’operaismo italiano degli anni Sessanta, nell’anello della catena internazionale dove la classe operaia era più forte. La conoscenza del Capitale è tutta di parte operaia: era la “scoperta” dell’autonomia. Autonomia che è anche riconoscimento, attraverso i prodromi dell’inchiesta, delle increspature, dei segmenti e delle disomogeneità della classe stessa: le linee del colore, del genere e generazionali si dimostrano determinanti nella ricerca della forza operaia e nella lotta continua alla propria condizione di sfruttamento e subalternità. Il rovesciamento del rapporto tra classe e avanguardie esterne, tra intellettuali ed operai, incrostatosi nell’ortodossia marxista-leninista dell’epoca, conteneva così i germi dello sviluppo degli strumenti teorico-pratici dell’analisi della composizione tecnica e politica di classe, della conricerca, della soggettività, ancora oggi formidabili armi per chiunque non si voglia fermare alla critica-critica della società capitalista.

(articolo pubblicato il 27 luglio 2020 sul sito di Commonware  https://commonware.org/formazione/non-gli-operai-di-manchester-ma-quelli-di-detroit-johnson-forest-tendency-socialisme-ou)