Contributo a una teoria della reticenza

Antonio Peduzzi

Il pensiero che si esercita sui processi di decadenza è schiavo dell’ideologia del progresso. Ha guardato l’eventualità della vittoria, quando essa appariva possibile, e ne subisce la sindrome dopo la disfatta. In questo modo attesta non solo di essere stato sconfitto ma di identificarsi nella posizione di vinto benché indugi a vagheggiare il contrario.

A questa condizione è pervenuto per eccesso di reticenza verso sé, perché quando sembrava che potesse divenire dominante non ha guardato e non ha detto l’incombenza del disfacimento che accompagnava come un’ombra gli atti del fare. Ora che il deserto è diventato la sua casa deve a tutti i costi pensare sé nella condizione della frequentazione della non pertinenza. A tutti i costi significa: se vuole sopravvivere. La sopravvivenza è la condizione dell’esilio, l’esilio è la sopravvivenza.

Pensare la logica del disfacimento implica distinzioni negli esiti del Klassenkampf. In ogni guerra può accadere che il corpo ufficiali decida di lasciare il campo di battaglia. In questo modo la truppa si sbanda. Sbandati, banditi, dispersi. O profughi. O imboscati. Le élites benestanti, gli stati maggiori, hanno prodotto questo risultato. Il popolo è stato lasciato, così è andato perduto, cioè in perdizione. Ma perdere significa dare sino in fondo. è stato consegnato al nemico.

Un conto sono gli sbandati o i dispersi. Un conto gli ufficiali che non hanno accettato la scelta degli stati maggiori. Ecco: costoro non sono sbandati o dispersi.

Sono esuli. L’esilio si addice a frammenti di élite il cui tratto è la non appartenenza. Deve tenerne conto chiunque intenda riflettere o semplicemente parlare sui processi di disfacimento – perché gli esuli sono l’attestato della sopravvivenza della politica una volta che essa è stata sconfitta.

Se c’è una logica del fare è necessario cercare di capire la logica del disfacimento. A prima vista il fare implica una soggettività. Il disfacimento è inerziale. è sufficiente un atto iniziale perché il disfacimento proceda da sé, come ben sanno tutte le classi che sono state dominanti – e come non sanno gli ufficiali di stato maggiore che pretesero di dichiarare conclusa la guerra ritenendo scioccamente che i reparti sarebbero rimasti schierati. In realtà il rompete le righe voleva essere la dichiarazione della fine delle classi.

Chi dovette scegliere l’esilio sapeva perfettamente che la lotta passava dalle forme palesi alle forme occulte – il che spiega perché gli operai regredissero a poveri. A questo non hanno mai pensato né i teorici autodidatti per i quali la globalizzazione era una offerta di benessere né coloro che cancellarono il concetto di classe sostituendolo con quello di moltitudine, con un radicalismo immaginario che cancellava la politica e chiamava in campo assistenza e carità.

È necessario diffidare del bilanci in cui non si decidono ragioni e torti. Il più grande evento della storia umana è stato certamente l’incontro tra la classe degli oppressi e la teoria. La messa al bando della teoria e il suo esilio sono stati coappartenenti con la presunzione di riprendere il progresso che era stato spezzato il 7 novembre 1917. La ripresa del progresso, chiamata globalizzazione, è stata considerata come fine della vicenda dell’incontro tra gli oppressi e la teoria.

Pare evidente che le élites dirigenti, il ceto politico benestante, che decisero il rompete le righe qualche decennio fa avevano scarsi studi. Non potranno dirigere più nulla.