Giulio M. Cavalli – Francesca Fidelibus – Marco Dal Pozzolo e Otello Palmini – Silvestre Gristina – Vittorio Rebora
(Riproponiamo in un unico documento cinque articoli pubblicati su https://www.pandorarivista.it che ripercorrono brevemente la biografia intellettuale di Mario Tronti)
“Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015)” di Mario Tronti
Giulio M. Cavalli
Ospitata nella collana «XX secolo» diretta da Carlo Galli e Alberto De Bernardi per i tipi del Mulino, Il demone della politica è la prima antologia ragionata e sistematica degli scritti di Mario Tronti (Roma, 1931), uno tra i maggiori intellettuali italiani del secondo Novecento. L’antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, dal punto di vista editoriale ha il grande merito di fornire per la prima volta una panoramica completa dell’evoluzione del pensiero trontiano fin dai primi interventi nel dibattito marxista italiano (1958-1959), raccogliendo in tutto ventinove testi, molti dei quali difficilmente reperibili perché sparsi in riviste e collettanee, attentamente annotati e preceduti da un’utilissima introduzione a sei mani.
I curatori hanno opportunamente suddiviso gli scritti in quattro sezioni, che seguono un ordine cronologico che è anche tematico, e che si configurano quindi come le quattro principali tappe evolutive del pensiero di Tronti. La sezione più ampia è dedicata agli scritti immediatamente successivi alla stagione operaista, quasi a voler ricordare al lettore che Tronti non è stato soltanto «il padre nobile dell’operaismo italiano» (p. 11), ma un filosofo a tutto tondo, tanto radicale – come si vedrà – da mettere più volte in questione le sue stesse idee con estrema lucidità. Quando ci si trova davanti a un percorso intellettuale così complesso e tortuoso è allora quanto mai opportuno, come dichiarano in apertura i curatori, «offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio» (p. 11).
Nella prima fase del suo pensiero (1958-1967), coincidente con la stagione operaista e culminata nella chiusura della rivista «Classe operaia» (1964-1967), Tronti muove dalla critica a una certa ricezione del marxismo in Italia: l’obiettivo polemico è, sul piano teorico, la ricezione idealistica, e sul piano pratico il «gramscismo incarnato dal gruppo dirigente del Pci» (p. 12). Nel saggio Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola (1959), Tronti ricostruisce la ricezione italiana di Marx nei suoi momenti salienti, notando che «per la filosofia italiana, Marx è stato il punto d’appoggio per arrivare a Hegel. […] Marx ha introdotto Hegel in Italia» (p. 84) ed «è dunque alle origini dell’idealismo italiano» (p. 87). Gramsci è invece voluto tornare a Marx attraverso una serrata critica all’idealismo italiano: se per Croce e Gentile il Marx di Labriola fu il mezzo per arrivare a Hegel, al contrario per Gramsci lo Hegel degli idealisti italiani fu il mezzo per arrivare a una più profonda comprensione del marxismo. Tronti riconosce perciò a Gramsci «il merito di rivendicare l’autonomia e l’autosufficienza filosofica del marxismo» (p. 13); tuttavia, il carattere aperto e problematico del marxismo gramsciano, inteso come filosofia della praxis, cioè dell’atto impuro, rimanendo vincolato a una critica del pensiero borghese si dimostra incapace di «investire l’intera realtà della società capitalistica. Per essere originale e autonomo rispetto a tutte le filosofie precedenti, il marxismo deve quindi presentarsi come scienza» (p. 13).
Negli sviluppi successivi Tronti combina l’interpretazione “scientista” del marxismo con il carattere soggettivo e parziale dell’azione storica concreta della classe operaia. Decisivo a tal proposito è l’incontro con Raniero Panzieri e la nascita dei «Quaderni rossi» (1961-1963), a cui egli contribuisce con alcuni articoli nei quali viene definitivamente compiuta l’identificazione della classe operaia con la forza propulsiva soggettiva del capitalismo. Negli articoli La fabbrica e la società (1962) e Il piano del capitale (1963), poi inclusi in Operai e capitale (1966), Tronti analizza le trasformazioni della società di massa e dei rapporti di classe, che propendono verso politiche d’integrazione della classe operaia (perseguite peraltro dallo stesso Pci), contro le quali il pensatore romano rivendica il radicalismo «di chi si rifiuta di collaborare allo sviluppo per bloccare la riproduzione del sistema. Viene quindi tracciata un’alternativa tra “classe operaia organizzata dal capitale” e classe operaia come “sua interna contraddizione”» (p. 17).
L’inversione del rapporto tra operai e capitale compiuta da Tronti in quegli anni segna la rottura con Panzieri e la nascita di «Classe operaia», esperienza che, negli ultimi due anni, dovrà convivere con una situazione politica bloccata, nella quale falliscono sia i tentativi riformisti del centrosinistra, sia le spinte operaistiche interne al Pci. Gli inediti di Operai e capitale, e in particolare il saggio su Marx, forza lavoro, classe operaia, contengono già alcuni ripensamenti relativi alla distinzione tra teoria e prassi, forza-lavoro e classe operaia, tattica e strategia, partito e classe, che si tradurranno, nella fase successiva, nel riavvicinamento di Tronti al Pci, nella misura in cui la lotta di classe dovrà essere condotta anche su un piano eminentemente politico e istituzionale.
Tronti e l’autonomia del politico
Il riavvicinamento di Tronti al Pci nella seconda fase della sua attività (1968-1984) si fonda sulla valorizzazione teorica dell’«autonomia del politico», che conduce il pensatore romano a impugnare la formula-slogan «dal salario, al partito, al governo» (p. 22). Questa svolta politico-istituzionale ha le sue radici teoriche nello studio, condotto da Tronti negli anni delle rivolte studentesche, della scienza politica americana e della sociologia tedesca, nonché in quello di taglio storico-analitico delle lotte operaie negli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 e della risposta che il New Deal è stato in grado di dare agli squilibri socio-economici della società americana. La “scoperta” del politico, «inteso come apparato statale in senso ampio, che comprende anche i partiti, il ceto politico, le culture politiche» (p. 24), segna l’allontanamento trontiano dal marxismo, per il quale il politico appartiene invece alla sovrastruttura sempre riducibile o comunque riconducibile alla struttura economica della società. Questo cambio di vedute presuppone dunque una critica del marxismo ortodosso attraverso la “lente” della crisi delle scienze europee, che permette a Tronti di superare l’iniziale “scientismo” per guadagnare definitivamente un punto di vista parziale sulla lotta politica di classe, più tardi declinato anche in chiave teologico-politica. Con l’autonomia del politico, la lotta di classe viene allora raddoppiata su un altro livello, che tuttavia, come notano i curatori, «finisce per instaurare rapporti ambivalenti all’interno delle classi stesse: se il New Deal combatte infatti la parte più retriva del capitale, costringendola a fare i conti con la classe operaia organizzata in sindacato, allo stesso modo la classe operaia vede una sua crescita organizzativa e di potenza, ma all’interno di un’iniziativa politica di tipo capitalistico» (p. 24).
In linea con queste considerazioni, il progetto politico trontiano di questo periodo consiste nel «rendere subalterno il capitale con i capitalisti dentro questa stessa società» (p. 280), esercitando su di esso un controllo di tipo politico. Tale progetto viene sviluppato nei primi anni ’70 e trova la sua prima sistemazione nel saggio Sull’autonomia del politico, trascrizione di un intervento a un seminario organizzato da Norberto Bobbio a Torino nel 1972: qui Tronti riflette sul fatto che «il potere espresso dalla classe operaia in fabbrica non si è tramutato in potere politico nello Stato» (p. 26), e individua la causa di ciò nella mancata traduzione sul piano politico di quanto è avvenuto sul piano sociale (che dunque si contrappone esplicitamente al potere politico). A dare man forte alle suddette tesi, in questi anni che coincidono con l’insediamento di Tronti all’università di Siena come professore di filosofia morale e politica, sono le analisi dei classici del pensiero politico e della storia moderna sviluppate nei suoi corsi, rivolte in particolare al Seicento e all’Ottocento, e di cui i saggi su Hegel politico (1976) e Hobbes e Cromwell (1977) costituiscono importanti testimonianze. Dopo la pubblicazione de Il tempo della politica (1980), che riassume la riflessione del decennio precedente, Tronti svolge attività di rilievo nel comitato centrale e nella segreteria romana del Pci, e sarà proprio questa esperienza all’interno del partito a fargli prendere coscienza della crescente distanza tra teoria e prassi politica, che si tradurrà in un nuovo cambio di prospettiva.
La riflessione teologico-politica
Dopo l’esperienza politica nella dirigenza del Pci, nella terza fase della sua riflessione (1985-1998) Tronti pone l’enfasi più sulla comprensione che non sull’azione, quasi a testimoniare la necessità di riflettere, per «disperazione teorica» (citato a p. 37), sui fallimenti del movimento operaio e sulla sua stessa scomparsa sul piano politico e istituzionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Questa fase del pensiero di Tronti segna anche il suo avvicinamento al filone teologico-politico. Attraverso la forzatura teorica delle categorie schmittiane del politico, Tronti scopre infatti «l’esistenza di una dimensione “non politica” del politico» (p. 39): il politico non esaurisce l’ambito delle relazioni umane perché, al di là di esso, si dà una dimensione ulteriore, “trascendente”, che insiste sul politico e anzi lo determina da fuori. «Inizia in questa fase, quindi, la critica alla politica come immanenza totale, una direttrice di pensiero almeno in parte in contrasto con quella del realismo politico, che Tronti continuerà comunque a portare avanti. Questo binomio, inquieto e non pacificabile, di realismo e trascendenza caratterizzerà d’ora in poi le tappe del suo percorso» (p. 39). A partire da qui, la riflessione trontiana si svolge attorno ad alcuni nodi concettuali, che non possono essere qui approfonditi ma solo accennati, e la cui discussione sarà rimandata alle parti successive di questa recensione. Innanzitutto viene constatata una regressione del politico, determinata dalla progressiva tecnicizzazione e laicizzazione della politica; un sintomo significativo di tale spoliticizzazione è la riduzione della politica (e della religione) all’etica, che implica il disconoscimento dell’etica implicita nella politica in favore di un’etica esterna intesa come legge morale astratta e imposta da fuori. Continuando a indagare sul fallimento dell’esperimento sovietico, Tronti sviluppa inoltre una riflessione antropologica sul soggetto politico rivoluzionario, secondo la quale il fallimento della rivoluzione è dipeso da un errore nell’antropologia di Marx, sicché «attraverso quel buco antropologico del marxismo è passata tutta la rivincita del vecchio mondo» (p. 454).
La riflessione teologico-politica di questi anni approfondisce il tema “giovanile” dell’«uno travagliato dal due», da intendersi sia come contraddizione interna al sistema capitalistico (operai-capitale), sia come contraddizione interna alla classe operaia, che è insieme soggetto del capitalismo e sua negazione: programmatico, su queste tematiche, è il confronto tra Marx e Schmitt sul concetto di negazione, istituito in Karl und Carl (1998). Da tutte queste considerazioni risulta un quadro di generale sfiducia verso la politica, che infatti conduce il pensatore romano a decretarne il «tramonto» sul finire del secolo: l’unico modo per fare ancora politica consiste nel riflettere sul «periodo d’oro della politica novecentesca» (p. 45), quasi a voler rimarcare il primato del comprendere sull’agire che costituisce, come detto, il vero filo conduttore dell’ultimo trentennio dell’attività intellettuale di Tronti. Come sottolineano i curatori nell’introduzione, «la disperazione teorica – diversa dalla rassegnazione in chi per altri versi e posseduto dal demone della politica – sembra quindi imporre l’urgenza e l’imperativo di capire un mondo che non si può accettare ne riformare. Così al lampo del pensiero non segue il tuono dell’azione, perché non si danno tuoni in una stagione di avvenimenti senza eventi» (p. 50).
Tentare il possibile per raggiungere l’impossibile
L’ultima fase del pensiero di Tronti (1999-2015) si apre simbolicamente col congedo dall’università di Siena nel 2001: in questo periodo egli assume la guida del Centro per la riforma dello Stato (2004) e viene eletto senatore nel 2013 per la coalizione di centrosinistra. La sfiducia nei confronti della politica si traduce politicamente in un «agire accorto», a cui si accompagna però, come recita il motto dello stesso Tronti, un «pensare estremo» (p. 50). La riflessione trontiana degli ultimi anni è infatti impegnata quasi interamente in un progetto di «critica della democrazia politica», che determina un nuovo approdo teorico radicale e stimolante, secondo cui «è la democrazia, in quanto società democratica, e non il capitalismo, la vera responsabile della sconfitta del movimento operaio, rea di aver liquidato la parte in nome della massa, indistinta e anonima, e d’aver convertito il protagonismo dell’operaio-massa nel conformismo del borghese-massa, sotto la dittatura del calcolo e della maggioranza» (p. 52). Il criterio quantitativo su cui si basa la democrazia ha uniformato politicamente le classi, dissolvendo nella massa la loro carica soggettiva, negativa e parziale, e instaurando la populistica tirannia dell’opinione pubblica.
Diventa allora fondamentale ripristinare le soggettività politiche perdute, e per farlo è necessario recuperare «l’opposizione duale che è essenziale alla politica» (p. 56) attraverso la teologia politica, un compito al quale è dedicato il volume Il nano e il manichino (2015), dal quale è tratto il saggio sul Frammento teologico-politico di Benjamin. Si tratta di «ridare forma alla politica attraverso il conflitto» (p. 62), recuperando la coscienza della contraddizione con uno sguardo all’indietro, rivolto al «lascito del passato, quel passato tramandato dai comunisti – gli unici che davvero riuscirono a far paura al capitale» (p. 63). Tuttavia, a parere di chi scrive, il richiamo al passato non è forse dovuto soltanto all’impossibilità, per l’individuo Mario Tronti, di intraprendere nuove sfide, ma anche – e soprattutto – all’impossibilità strutturale di far coincidere il pensare estremo con l’agire accorto, la teoria con la prassi, magistralmente sintetizzata nel paradossale e disperato rovesciamento dell’adagio di Weber: «Tentare il possibile per raggiungere l’impossibile» (M. Tronti, Non si può accettare, Ediesse, 2009, p. 96).
Tronti operaista
Francesca Fidelibus
Ripercorrere i profili teorici e i soggetti in cui si incarna l’esperienza dell’operaismo degli anni Sessanta appare quanto mai anacronistico se si considera il fatto che fu un’esperienza fallimentare per il suo soggetto portante: la classe operaia. Nonostante ciò, l’operaismo continua a sopravvivere a se stesso, non tanto per l’esperienza storica che è stata ma per l’attualità di metodo che offre nell’analisi della società e delle conseguenti forme politiche. Volendo riassumere in poche battute su cosa verteva la proposta operaista rispetto al marxismo ortodosso, si potrebbero individuare due elementi: la soggettivazione e la necessità di storicizzazione della propria analisi. Era il rifiuto dell’assegnazione di un’indiscussa unità alle soggettività politiche e l’intuizione che le soggettività politiche emergono come risultato di un processo storico legato alla dimensione del conflitto che consentiva di spostare il cursore non tanto su “la classe” ma sulla composizione di classe. In tal senso, la domanda che sottende il discorso operaista è: quali sono i conflitti, qual è la loro natura, consistenza e struttura all’interno dello spettro sociale?
Per quanto la società non sia più la stessa degli anni ‘60-’70, la sua struttura resta divisa e all’interno di essa una cultura conflittuale di origine operaista resta, oggi, più che mai valida tanto dentro le lotte sociali all’interno dei singoli paesi quanto nella struttura geopolitica del mondo. Anche nella struttura-mondo, infatti, un pensare operaista può esercitarsi tentando, di volta in volta, di individuare faglie di conflitto. In tal senso, assume tutto il suo spessore la definizione che, dell’operaismo, dà Mario Tronti in un’intervista relativamente recente in cui ripercorre criticamente quella stagione di cui fu indubbio protagonista: «la definizione strategica dell’operaismo è quella di una cultura e di una pratica del conflitto» (G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero (a cura di), Gli operaisti, DeriveApprodi, 2005, p. 307). Una cultura e una pratica che consentono, anche oggi, di assumere un punto di vista e un modo di guardare politici radicalmente diversi da quelli correnti: non la centralità dell’ordine ma del conflitto e la ricerca della definizione e della possibile organizzazione di forze antagonistiche in seno alla società.
Risulta prezioso, dunque, ripercorrere la densità teorica che assume, specificatamente, la riflessione di Tronti, il cui itinerario intellettuale è tracciato dall’Antologia curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, che dedica la prima sezione, titolata esplicativamente Il punto di vista, al periodo operaista (1958-1967).
Il punto di vista
Il primo saggio della sezione, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola (pp. 67-94) è dedicato alla critica della ricezione di Marx nella tradizione italiana e alla sua lettura idealistica. A fare da sfondo al saggio si pone, sul piano teorico, la domanda relativa allo statuto del marxismo: se sia, cioè, un’ideologia o una scienza. In tal senso, Tronti riconosce a Gramsci il merito di aver rivendicato l’autonomia filosofica di Marx, ma fa anche emergere l’urgenza di individuarne una scienza al fine di sostituire all’equazione gramsciana filosofia=storia quella, dalla eco dellavolpiana, scienza=storia.
Al di là della patina superficiale, il saggio rappresenta l’allontanamento di Tronti dal marxismo del Pci. Un allontanamento aggravato, sul piano internazionale, dai fatti che, in quegli anni, misero in crisi l’intellettualismo europeo di sinistra di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) e alla brutalità del “socialismo realizzato”. D’altra parte, sul piano nazionale, l’Italia si avviava tardivamente al taylorismo-fordismo e il Pci appariva a Tronti chiuso in politiche riformiste strategicamente e tatticamente lontane dalle rivendicazioni operaie. In tale contesto, egli si rivolge ad un altro tipo di marxismo, lontano dalla lettura ortodossa portata avanti dal Pci: il marxismo antistoricistico, materialistico, scientista, che teorizzava la rottura, più che la continuità, tra Marx e Hegel di Galvano Della Volpe. Al marxismo critico dellavolpiano integra, tuttavia, un pensiero sulla e della soggettività.
In tal senso, Tronti scopre nel Capitale di Marx un’opera scientifica e un momento di lotta politica: si attua, cioè, il ribaltamento radicale dall’assunto idealistico per cui la teoria si mette in pratica all’assunto per cui la teoria è l’unica possibile determinazione reale del concreto. Punto dirimente è quello dell’unità organica tra teoria e prassi politica da raccordare nel più ampio processo di organizzazione della classe. Ciò è tanto più evidente nei saggi successivi della sezione, tesi all’individuazione di una soggettività forte, in grado insieme di interpretare e trasformare la logica capitalistica. In questo orizzonte si collocano sia il saggio La fabbrica e la società (pp. 95-122) sia La rivoluzione copernicana (pp. 123-136) influenzati dall’incontro con Panzieri e dall’esperienza di «Quaderni Rossi». Ne La fabbrica e la società Tronti individua la complessità del rapporto tra le trasformazioni interne alla sfera della produzione e quelle interne alla società tout court. L’intento è quello di far emergere la mistificazione del rapporto tra produzione capitalistica e società borghese poiché «quanto più il rapporto determinato della produzione capitalistica si impadronisce del rapporto sociale in generale, tanto più sembra sparire dentro quest’ultimo come suo particolare marginale» (p. 109). Quando la fabbrica estende la sua logica all’intera società impadronendosene, i tratti specifici della fabbrica si perdono dentro i tratti generici della società. Svelata la mistificazione, Tronti pone l’accento su quella parte interna al processo di produzione-riproduzione capitalistica e sulla sua essenzialità da riconoscere e rivendicare: la classe operaia.
In questa prospettiva, opera l’inversione tra capitale e operai andando oltre quel massimalismo che vedeva la classe operaia tutta fuori dal capitale, risultando incapace di fornire una conoscenza scientifica e una mirata lotta pratica. Al contrario, per il pensatore romano «bisogna arrivare a dire oggi che dal punto di vista dell’operaio si deve guardare non direttamente la condizione operaia, ma direttamente la situazione del capitale» (p. 117). Sullo sfondo del rapporto interpretazione-trasformazione, la classe operaia deve riconoscersi come parte del capitale per contrapporre tutto il capitale a sé stessa. Lungi dal presentarsi all’esterno, la classe è la negazione interna, la contraddizione insolubile del capitalismo (cfr. p. 121). In quanto sua negazione insolubile, se organizzata politicamente, è in grado di spezzare, dentro la fabbrica, la macchina dello Stato borghese. Emerge, dunque, la connessione biunivoca tra l’azione trasformativa e la fatica del concetto, tra l’urgenza dell’una e l’obbligo dell’altra che compare con forza anche ne La rivoluzione copernicana.
Filo rosso di questi scritti è la convinzione trontiana che sia la potenza delle lotte salariali a spingere il capitale a innovarsi dal punto di vista organizzativo e tecnologico e a socializzare le forze produttive. Ma quanto più il capitale si valorizza tanto più è costretto a incorporare la classe operaia in seno al processo di accumulazione, strutturandola come potenziale forza d’opposizione. In tal senso, la macchina dello Stato borghese va spezzata dalla classe operaia dentro la fabbrica poiché questa si è estesa su quella. Per fare ciò, la “rivoluzione copernicana” deve avvenire sia su un piano teorico che pratico: occorre esaminare le lotte sociali come il motore dello sviluppo capitalista per fare di questo una variabile dipendente da quelle. Da un lato, infatti, la classe operaia spiega il capitale poiché quella può esser pensata senza questo ma non viceversa; dall’altro, mentre la società borghese, espressione diretta del capitale, cresce solo sul piano economico, la crescita della classe operaia dentro il sistema economico del capitale, «si pone immediatamente come crescita politica» (p. 126). Il fulcro, dunque, attorno a cui ruota il discorso trontiano è l’anteriorità della classe operaia rispetto a quella dei capitalisti poiché essa rappresenta «il punto più alto dello sviluppo» (p. 124) capitalistico e, in quanto tale, il punto di vista operaio è l’unico che può cogliere il processo generale del capitalismo stesso. Peraltro, in quanto l’accumulazione caratteristica della classe operaia non è di tipo economica ma politica – di richieste e forme di lotta politiche –, essa deve trovare una sua organizzazione diversa da quelle esistenti – sindacato, partito, organizzazione spontanee – criticate da Tronti.
Proprio sotto l’urgenza di una riformulazione del rapporto classe-partito e di un’organizzazione politica nuova, si pone il quarto saggio della raccolta del 1964, Lenin in Inghilterra (pp. 137-144), che mira a riportare il partito dentro la fabbrica per abbordare l’apparato statale dal centro nevralgico del comando neocapitalistico facendo saltare la dicotomia tra lotte economiche e lotte politiche. Precisamente l’ambizione ad un’organizzazione autonoma delle lotte all’interno delle fabbriche determina l’uscita di Tronti da «Quaderni Rossi» e la fondazione della nuova rivista, «Classe operaia», intesa come meccanismo di controllo sulla validità strategica delle singole lotte. Da questo punto di vista, gli obiettivi polemici di Tronti e dei compagni confluiti nel nuovo giornale sono le manovre riformiste criticate nel saggio 1905 in Italia (pp. 145-152) in cui Tronti, sullo sfondo della crisi inflazionistica che stava investendo l’Italia e dell’ascesa della combattività operaia, auspica ad un’aggressione alla congiuntura poiché «al punto più difficile della evoluzione congiunturale deve corrispondere il momento più acuto delle lotte operaie» (p. 151). Un’aggressione alla congiuntura, volta a impedirne la stabilizzazione economica, provocando «una crisi politica reale, che non è crisi di governo, ma crisi di potere e quindi sostanziale mutamento nei rapporti di forza fra le due classi in lotta» (p. 152). Per raggiungere tale obiettivo, occorre che la classe operaia si organizzi in partito e ricerchi una nuova pratica marxista che radicalizzi, intensifichi e acceleri le pratiche di rivolta operaia esasperando «la dinamica salariale» (p. 151), colpendo la «produttività del lavoro», agendo nei punti strategici della fabbrica (p. 152). In tal senso, l’insubordinazione spontanea degli operai costituisce la strategia, mentre il partito deve riconquistare il momento della tattica raccogliendo, esprimendo e organizzando l’insofferenza operaia fino a stabilire un’autentica crisi nella macchina dello Stato.
Emerge, qui, un primo spostamento della riflessione trontiana sul rapporto tattica-strategia che si ripresenta con più forza in Marx, forza-lavoro, classe operaia (pp. 153-198). È il saggio più analitico di Tronti che commenta il Marx dei Grundrisse costruendo un solido impianto teorico per giustificare quanto teorizzato fino a quel momento: il rovesciamento del rapporto tra lavoro e capitale. Il saggio, scritto nel 1965 – dopo la morte di Togliatti, la ristrutturazione interna del Pci e la ripresa dell’agitazione –, esprime un momento di transizione nella riflessione trontiana: dal legame fabbrica/società Tronti si rivolge al rapporto fabbrica/politica; dall’analisi del capitalismo si sposta verso una teoria della rivoluzione. Qui, il pensatore romano ripercorre tutti gli elementi articolati fino a quel momento argomentandoli in modo più efficace attraverso un consistente ritorno alle fonti e ai testi marxiani. In particolare, passando per un’archeologia delle lotte del XIX secolo, mostra come la concezione marxiana della forza-lavoro contenga già in sé le forme della classe operaia (cfr. p. 161).
La teoria del valore-lavoro diviene, così, una teoria politica più che una legge economica. Da un punto di vista analitico, l’attenzione è posta sulla differenza tra lavoro vivo e lavoro morto, «lavoro soggettivo contrapposto al lavoro oggettivato, […] lavoro contrapposto al capitale: il lavoro come non-capitale» (p. 177). Proprio in quanto il lavoro si presenta come un “non-qualcosa”, esso risulta «un Nicht piantato nel cuore di una rete di rapporti sociali positivi, che tiene in sé insieme la possibilità del loro sviluppo come quella della loro distruzione» (p. 177). È un pensiero dell’Uno scisso e travagliato dalla negazione piantata al suo interno: il lavoro rappresenta la contraddizione del capitale presentandosi, assieme, come miseria oggettiva e possibilità di ricchezza soggettiva (cfr. p. 178). In tal senso, il processo produttivo si presenta, contemporaneamente, come «l’atto della produzione di capitale» e il «momento della lotta operaia contro il capitale» (p. 183).
Tronti e il problema del politico
A quest’altezza cronologica, la polarizzazione tra strategia propria della classe e tattica propria del partito è compiutamente delineata: non più ricerca di un’unità organica ma, sotto il nome di Lenin, necessità di una tattica che rovesci la strategia per applicarla, come emerge nel saggio La linea di condotta (pp. 199-220) del 1966. Qui, Tronti teorizza il “brusco salto” e l’auto-negazione della classe operaia in quanto parte del capitale: «nella ripresa dello sviluppo del pensiero operaio bisogna rivalutare di nuovo, daccapo, il lato attivo, il lavoro creativo» (p. 203). In tal senso, la conoscenza è legata alla lotta: la parzialità coglie, conosce teoricamente la totalità nella misura in cui lotta per distruggerla nella pratica delle cose (p. 204). Ma per fare ciò è necessaria un’organizzazione politica che ponga in atto un’azione intesa come «invenzione soggettiva», «aderenza alle cose reali […]» (p. 214). Nessun equilibrio statico, dunque, tra lavoro politico e scoperte teoriche, ma un rapporto di movimento in cui l’uno serve all’altro a seconda del momento e della congiuntura. È la teorizzazione della rottura in un punto in cui far convergere tutte le forze della soggettività operaia per spezzare in blocco la rete sempre più fitta del capitalismo.
Una teorizzazione, tuttavia, destinata a subire uno scacco nel 1967, anno che segna la fine dell’esperienza di «Classe operaia» icasticamente rappresentata dalla chiusa dell’ultimo saggio della sezione, Classe partito classe (pp. 221-226): «Adesso noi ce ne andiamo» (p. 226). È il termine di un discorso politico-strategico per la classe operaia e per il movimento operaio di cui, fino a quel momento, Tronti auspicava la pretesa di imporsi. Il filo rosso del saggio è emblematico: la svolta o sarà di massa o non sarà. Ma l’incapacità della soggettività operaia di svilupparsi dovuta alla mancanza di un’organizzazione politica e ad un capitalista collettivo che, attraverso l’aggiustamento salariale, prendeva sempre più le forme della pianificazione democratica, porta Tronti ad un riavvicinamento al Pci e ad una riflessione sul politico per un ripensamento tattico della rottura rivoluzionaria mancata. L’orizzonte discorsivo si sposta, dunque, dalla fabbrica all’istituzione, dal problema della presa di potere al problema del governo che apre alla seconda sezione dell’Antologia e chiude il periodo dell’operaismo con l’illusione ottica di un Tronti che, nell’esuberanza intellettuale e nell’entusiasmo giovanile, di fronte al rosso del tramonto ha pensato di vedere, come tanti altri, il rosso dell’aurora (cfr. Gli operaisti, cit., p. 295). Quella fase di lotte degli anni Sessanta sembrava aprire una stagione, un nuovo punto di partenza ma si dimostrò il finale scintillante di una storia operaia legata alla figura, allora centrale, dell’operaio-massa. A distanza di anni, guardando al fallimento della stagione operaista Tronti, leninista da sempre, sottolinea ricchezze e limiti, continuità e distacchi da quel momento teorico: «ho sempre pensato e continuo a pensare che senza una direzione politica nessun movimento sociale vince […] E il motivo per cui poi alla fine questa soggettività operaia non ha vinto, non ha sfondato è perché non ha trovato la direzione politica […] Di qui poi tutta la mia attenzione negli anni seguenti a questo maledetto problema del politico» (Gli operaisti, cit., p. 296). Un problema, quello del politico, che porta Tronti a distaccarsi, in parte, dall’esperienza dell’operaismo senza, tuttavia, abbandonarne lo strumentario teorico che, lui, più di tutti, aveva contribuito a costruire.
Parzialità e autonomia del politico, la riflessione politica di Mario Tronti negli anni ’70
Marco Dal Pozzolo e Otello Palmini
La riflessione di Mario Tronti è stata ed è costitutivamente legata alla storia, concepita in risposta ad esigenze di carattere teorico e politico che il divenire storico ha via via posto di fronte ad un pensatore capace di intessere un dialogo intenso con gli ultimi settant’anni di storia italiana. La riflessione del decennio tra il 1970 e il 1980 non costituisce un’eccezione. È per questo che raramente si potranno leggere riflessioni epistemologico-metodologiche prive di quell’attaccamento alla carne viva della storia che assicura il battito, e il ritmo, alla riflessione di Tronti.
Marxismo e crisi delle scienze
Non deve sorprendere, quindi, che in uno scritto del 1976, Teoria e politica. Scienza e Rivoluzione (relazione a un seminario dello stesso anno organizzato a Siena da Mario Rossi), certamente lo scritto più denso per quanto riguarda gli aspetti metodologici, Tronti esordisca con un netto «Non è un problema di metodo» (p.313). Eppure, in questo breve ma densissimo intervento e poi, con ritmo meno forsennato, in tutti gli scritti del decennio, Tronti mette in luce un limite epistemologico e metodologico dell’analisi marxista (più che marxiana). Questo limite ha una precisa radice storica e costituisce un freno per una pratica politica effettuale in un tempo che, invece, richiederebbe una decisa spinta in avanti. Nota Tronti che «la miseria della politica riguarda solo il pensiero» (p.314), la pratica politica, che di questo pensiero imbrigliante riesce a fare a meno – come sarà chiaro nell’analisi della classe operaia americana – è più ricca, raffinata ed effettuale. La riflessione teorica marxista, insomma, rimane indietro rispetto a delle avanguardie di pratica politica, anzi, rischia di fungere da freno per una effettuale politica pratica. Resta indietro in quanto ha mancato l’occasione di ripensarsi all’altezza di uno snodo storico e culturale occorso nei primi del Novecento. I bersagli polemici sono chiari, espliciti: György Lukács, Karl Korsch e i francofortesi i quali avrebbero contribuito ad una interiorizzazione della lotta di classe, imperniata sull’alienazione dell’individuo. Questo è accaduto, spiega Tronti, perché il marxismo, a differenza di una parte della grande cultura borghese, Max Weber su tutti, ha mancato un passaggio fondamentale. «La crisi delle scienze non è passata attraverso il marxismo […] o il marxismo non è passato attraverso la crisi delle scienze» (p.317). Detto altrimenti: il marxismo la cui vocazione è quella di essere non ideologia ma scienza della società è rimasto ancorato a un’idea di scienza e di scientificità newtoniana, antecedente alla crisi rivoluzionaria che le scienze hanno attraversato a inizio Novecento. La malattia che impedisce al marxismo di essere un paradigma interpretativo e d’azione effettuale è una sorta di sindrome del sistema chiuso, eredità di un certo hegelismo.
Il rimedio a questa malattia, per Tronti, è un composto di parzialità, relativismo e de-ideologizzazione. L’oggetto della riflessione – il rapporto capitalistico e quindi la società capitalistica che ne risulta – va interpretato dal punto di vista operaio: deve subire una torsione sulla parte operaia e deve essere rideclinato, modernizzato e sviluppato a partire dal punto di vista di chi conduce la lotta, e non in nome di una teoria che vada oltre le parti, di un’oggettività imparziale. Questo deve essere il risultato del principio di indeterminazione applicato alle dinamiche sociali. L’oggettività si deve costruire a partire da un punto di vista soggettivo, operaio, «questo è il punto di partenza teorico e il risultato storico» (p.320) cui deve approdare la riflessione operaia passata attraverso la crisi delle scienze. Una liberazione della prassi che la riporti a essere ciò che era per Marx e soprattutto per Lenin: non rispecchiamento dell’oggettività sociale e politica, ma essa stessa principio trasformatore, forza oggettivizzante. In politica la forma della scienza non sta nella capacità di rispecchiare il reale, ma nella potenza di organizzazione sociale, nell’energia che dimostra di avere nel rideclinare il reale in funzione del suo punto di vista. Questa nuova oggettività del punto di vista operaio non potrà più prescindere dalla soggettività che ne è parte costitutiva. Su queste basi si deve sviluppare una nuova scienza operaia, «non della verità si tratta, e non della conoscenza, ma di chi vince la lotta, di chi ha più forza e sa di averla, perché l’organizza» (p.321). La domanda che sorge è se possa esserci una scienza di classe che non sia ideologia di classe. La risposta si estenderà lungo un decennio di riflessione: «Si, se dietro c’è la crisi delle scienze, si, se prima c’è stato quel tipo di rivoluzione scientifica, che ha rovesciato la forma di lettura dei fatti» (p. 320). Questa di esigenza di rinnovamento della riflessione marxista attraverso la critica al dialettismo e il passaggio attraverso la crisi delle scienze, non è un’esigenza isolata del pensiero trontiano. All’inizio di questo decennio si colloca la collaborazione di Tronti con la rivista «Contropiano», un centro di elaborazione intellettuale che si interrogò anch’esso sulle possibilità di rinnovare l’impianto teorico marxista e quello del pensiero di sinistra in generale. Tra i fondatori di «Contropiano» (1968-1971), assieme a Alberto Asor Rosa e Antonio Negri, è certamente Massimo Cacciari a intraprendere una linea di riflessione caratterizzata da obiettivi non lontani da quelli di Tronti. L’elaborazione cacciariana su questi temi acquisisce la sua formulazione più chiara e completa in un saggio che risultò essere molto influente sulla cultura dell’epoca: Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo del 1976. Testo denso e complesso, nella cui sezione più esplicitamente filosofica è proposta una riformulazione del pensiero marxista attraverso la lente della crisi delle scienze. Tale passaggio si attua anche attraverso un’originale interpretazione di due grandi figure filosofiche: Nietzsche, interpretato come riformatore del pensiero scientifico attraverso la logica del Wille zur Macht (Volontà di potenza), e Wittgenstein la cui svolta di pensiero è letta come un avvicinamento, seppur non portato fino in fondo, alla posizione nietzscheana e all’epistemologia influenzata dalla crisi delle scienze.
Su «Contropiano» era uscito un articolo – Classe Operaia e sviluppo – in cui Tronti tentava già, nel 1970, una ricomposizione teorica del movimento, una «teoria generale di parte operaia» (p.240). Questa, scrive Tronti, dovrà vivere di due momenti: «un’auto-analisi storica del punto di vista operaio» (Ibidem) e l’apertura di «nuove dimensioni della politica» (p.241). Il primo momento consisterà in una genealogia del punto di vista operaio che porti alla luce la logica dei nodi storici che ne hanno scandito la genesi e la vita, un’analisi che dovrà giungere fino alla situazione presente per evidenziarne le criticità e le possibilità di sviluppo; parallelamente sarà necessario aprire nuovi spazi per l’azione politica, mettendosi alle spalle il vecchio mondo dei valori e guardando a una serie di pratiche volte a obiettivi concreti, precisi in attesa di una generale ricomposizione teorica del movimento. Insomma, occorre ricostruire una teoria a partire dall’analisi storica della propria parte, e attraverso vittorie circoscritte ma tangibili, che mostrino-dimostrino la forza di un punto di vista operaio capace di oltrepassare sia la rassicurante, ma inefficace, teoria marxista ortodossa ferma all’Ottocento, sia quel marxismo degenerato nell’interiorizzazione e nell’individualizzazione della lotta – emblematico della riflessione francofortese – secondo Tronti.
Tronti e il politico come strumento tattico
Il punto di vista operaio, di parte, apre dunque la possibilità di pensare in termini tattici le lotte e porta Tronti a tematizzare una categoria marginale nella tradizione marxista: il politico. Sono proprio questi gli anni in cui Tronti lavora su uno dei concetti più noti della sua teorizzazione, l’autonomia del politico, che fa la sua comparsa nel post-scritto a Operai e capitale (1970), ma è sviluppato per la prima volta in seminario a Torino del 1972 alla presenza di Norberto Bobbio. Sono anche gli anni in cui Tronti si riavvicina al PCI: proprio a causa di questa svolta riceve forti critiche da parte del mondo operaista (cfr. introduzione p.23) e su questo punto matura la separazione teorica da Toni Negri (cfr. Toni Negri, sull’autonomia del politico di Tronti, 2019). Se con il termine “politico” Tronti riassume l’azione dello Stato, delle istituzioni e del ceto politico insieme, con “autonomia” intende qualcosa che riforma radicalmente un aspetto portante del marxismo ortodosso: il politico non solo ha la capacità di gestire i ritmi dello sviluppo del capitalismo, ma configura un proprio ciclo in larga parte indipendente da quello economico.
La prima grande scoperta concerne lo scarto fra la temporalità propria del capitale e quella del politico. Il politico è in ritardo sullo sviluppo del capitale, ma questo fatto non è dovuto essenzialmente a una necessità di adeguamento continuo della struttura alla sovrastruttura, piuttosto è la logica complessiva dello sviluppo capitalistico che richiede la mediazione del politico. Il politico ritarda l’azione del capitale e così «assorbe e impedisce che esplodano le stesse contraddizioni critiche cui da luogo il movimento dello sviluppo» (p.288). La mediazione del politico costituisce un vero e proprio meccanismo di autodifesa allo sviluppo del capitale, che di per sé è connotato da una irrazionalità politica nella gestione delle sue stesse crisi e, in alcuni casi, nella gestione dei rapporti di forza con la classe operaia. Il politico emerge nella sua autonomia in quanto controlla le temporalità di sviluppo del capitale.
«La seconda grande scoperta è, secondo me, l’esistenza di un ciclo politico del capitale, cioè di una ciclicità del suo sviluppo politico che ha una sua specificità rispetto allo stesso ciclo economico classico del capitale» (p.289) scrive Tronti, sempre ne “L’autonomia del politico”. I meccanismi di regolazione dello sviluppo del capitale sono molteplici, uno di questi è l’intervento dello Stato che può determinare un’avanzata politica del capitale per far fronte a una crisi di sviluppo (come negli Stati Uniti dopo il 1929) o può frenare lo sviluppo politico che l’evoluzione dei rapporti di forza materiali implicherebbe (come nell’Italia degli anni Sessanta). In ogni caso l’analisi dello sviluppo storico diventa più complessa perché il conflitto tra le due classi in lotta si sviluppa sui due piani, quello politico e quello economico, ma anche tra i piani stessi, dove il politico ha la forza di gestire il ritardo e, in alcuni casi, l’accelerazione dello sviluppo economico (cfr. M. Filippini, Punto di vista e autonomia del politico. Mario Tronti e l’Italian theory, in P. Maltese, D. Mariscalco (a cura di), Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory, ombre corte, 2016 p.90).
L’autonomia del politico ha d’altronde radici storiche profonde che i corsi all’Università di Siena sono per Tronti l’occasione di ripercorrere. Particolarmente significativo in questo senso è il testo del 1977 Hobbes e Cromwell, dove è analizzata la nascita della macchina statale moderna: la New Model Army di Cromwell è secondo Tronti legato strettamente alla teorizzazione dello Stato data da Hobbes ed entrambi aprono un’epoca in cui il potere statale è produttore autonomo di innovazione. Agli albori dello Stato moderno nel 1600, come nelle crisi del 1900, si rende più evidente lo scollamento dei due cicli (politico e economico), mentre i secoli centrali dello sviluppo capitalistico hanno rappresentato un periodo di maggior sovrapposizione dei piani, inducendo il marxismo a una teorizzazione semplificata del loro sviluppo. Il finale del testo del 1977 è il manifesto del nuovo programma politico-teorico, in perfetta consonanza con l’Autonomia del politico:
«Un nuovo orizzonte di pensiero chiede oggi di precipitare in una pratica di alto livello. Questa è la dimensione del politico operaio. Si tratta di decidere se è meglio per questo il morso del cane rabbioso di una teoria realistica dello Stato, o le fusa di quel gatto selvaggio addomesticato che è l’ideologia ex-rivoluzionaria dei limiti del potere statale» (p.368).
Lo Stato come strumento della lotta operaia è al centro di quella necessaria dimensione tattica della lotta che, come detto, è supportata sul piano teorico dalla rivoluzione epistemologica di un punto di vista parziale sulla società. Il nuovo approccio alla lotta operaia è reso necessario dall’analisi storica che mostra come la ricomposizione sia obiettivo strategico di lungo periodo e, d’altronde, sul piano strategico la classe operaia si rivela sempre la classe dominata (p.302). Ma Tronti, proprio sulla base di un discorso di parte che non presuppone alcun determinismo storico ma anzi libera uno spazio di indeterminazione per l’azione, si rende conto delle potenzialità della situazione: pur essendo la classe operaia dominata sul piano strategico essa può tatticamente usare il politico per comandare il rapporto di forze nell’intermezzo storico. La classe operaia non è destinata ad essere solo dominata se riesce a orientare lo Stato ai suoi interessi, cercando di renderlo più agile e efficace per superare l’arretratezza politica del capitalismo stesso. Secondo Tronti, una grande iniziativa politica del capitale manca dai tempi di Roosevelt ed è probabilmente alle porte, si tratta dunque di anticipare il capitale sul terreno della sua iniziativa politica.
Proprio le lotte della classe operaia americana tra il 1933-1947 (analizzate nel post-scritto a Operai e capitale del 1960) sono un esempio di come gli operai abbiano messo il capitale contro i capitalisti, piegando la mano pubblica dalla loro parte (p.267). Si assiste in questa fase storica a un contro-bilanciamento dei poteri storicamente inedito, basato sull’organizzazione e su un approccio pragmatico alla lotta che ha certo fatto leva sulla questione del conflitto tra salario e profitto. La classe operaia americana non è riuscita, infine, a concretizzare il proprio sforzo accontentandosi dei risultati raggiunti, ma ha dimostrato che è possibile direzionare a proprio vantaggio le aperture politiche del capitale, che a sua volta non può fare meno delle lotte operaie in quanto «insostituibile strumento di autocoscienza» (p. 258) e termometro delle sue contraddizioni. La classe operaia americana è dunque un esempio della potenza del politico da tenere in considerazione perché ha strutturato un rapporto di forza tipicamente marxiano, secondo Tronti sulla scia dell’insegnamento di Lenin. Proprio come il più grande genio tattico della storia del marxismo, la classe operaia americana ha saputo orientare il pensiero borghese a vantaggio della sua prospettiva di classe, servendosi della macchina statale. È questa agli occhi del pensatore romano forse l’ultima carta che ha in mano la classe operaia nel pieno degli anni Settanta.
Un ultimo aspetto interessante, poco analizzato e stimolante in una prospettiva contemporanea, è quello riguardante la sostituzione tecnologica del lavoro. Il tema è brevemente ma densamente trattato in Classe Operaia e Sviluppo del 1970 (pp.234-236). Qui Tronti concede ipoteticamente la possibilità tecnica di una sostituzione del lavoro vivo nella fabbrica, e sostiene la necessità della classe operaia non più sulla base del suo ruolo costitutivo all’interno del ciclo produttivo bensì appellandosi alla sua indispensabilità politica per il capitale. Infatti, da un lato il conflitto con la classe operaia è il motore, per Tronti, dell’innovazione politica del capitale, dall’altro la conservazione del “modello fabbrica” esteso alla società funge da apparato di controllo e razionalizzazione del corpo sociale. È possibile che questa indispensabilità politica, se pensata in riferimento ai soggetti sociali del nuovo millennio, sia un freno, interno allo sviluppo capitalistico, alle prospettive di automazione massiva del lavoro?
Demone della politica, Dio della storia: filosofia della storia e antropologia tra realismo e profezia. Mario Tronti tra il 1985 e il 1998
Silvestre Gristina
«Questa fase è in realtà per me una fase drammatica. Qui scopro quello che tiro fuori dopo, […] cioè il tragico nel politico, perché questo periodo sono gli anni ‘80, il fatto che gli anni ‘80 preparano gli anni ‘89-‘91, c’è la caduta del muro e la fine dell’Unione Sovietica: è quello il punto centrale di questo periodo […]. Insomma, è la fine di due secoli di storia del movimento operaio, […] scompare dalla scena questo soggetto che aveva fatto la storia lunga nell’800, poi nel ‘900 aveva avuto il massimo del suo sviluppo e il massimo delle sue conquiste. Dietro tutto questo discorso c’è insomma il dato tragico della fine di una storia. Ma questa fine con che cosa ha coinciso? Con una nuova forma di capitalismo, quella che viene fuori dagli anni ‘80 in poi. Il capitalismo dagli anni ‘80 in poi cambia proprio forma. Finisce il capitalismo industriale, che era stata la forma storica del capitalismo, finisce la grande industria e con la grande industria finisce la centralità operaia» (M. Tronti, conversazione con gli autori, Roma, 30 giugno 2014).
Il periodo che va dalla morte di Berlinguer nel 1984 al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, rappresenta la soglia tellurica che prepara alla frattura teologico-politica che avrebbe caratterizzato il salto teorico di Tronti negli anni Novanta. Fin dall’articolo Per un dizionario politico, apparso in «Bailamme» nel 1987, il nuovo problema di Tronti sarebbe stato quello di capire, prima di rischiare un’azione cieca. Ma questa enfasi sulla comprensione non significa che Tronti avesse rinunciato alla dimensione prasseologica dell’azione politica, quanto, piuttosto, che la sua riflessione fosse approdata alla consapevolezza di dover, a causa del blocco reale della pratica politica, ricalibrare le coordinate concettuali per comprendere le ragioni della fine della grande storia e individuare le nuove potenzialità del Politico. Nell’esigenza di un nuovo dizionario politico cominciava a riecheggiare l’eco delle nuove letture di Tronti, dalla schmittiana analisi del lessico politico come dizionario teologico secolarizzato alla Begriffsgeschichte (storia dei concetti) di Koselleck. Infatti, ciò che si percepiva allora come necessario, secondo Tronti, era, ed è tuttora, «una nuova idea dell’uomo. Un’antropologia rivoluzionaria che vada a misurarsi con la situazione del mondo, qui e ora. Tutto il resto, lo stesso modello di un’altra società come obiettivo per cui richiamare a combattere, non può che passare attraverso questa porta stretta. Voglio dire che sul piano del pensiero politico siamo di fronte a un’emergenza teorica. Le mezze misure non pagano. Va marcato un salto. La lunga durata del politico nella storia va adesso utilizzata dal punto di vista di una rottura col presente. L’idea di futuro è in crisi. E tuttavia bisogna pensare una filosofia dell’avvenire. L’innovazione è stata catturata dalla restaurazione. E tuttavia bisogna cambiare il mondo. La realtà si giustifica da sé, con la permanenza della sua esistenza. E tuttavia bisogna fare critica di tutto ciò che è. Ci vuole un nuovo dizionario politico per fare da specchio di questa contraddizione tra la potenza delle cose e le decisioni del pensiero» (M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti, a cura di M. Cavalleri, M. Filippini e J. M. H. Mascat, p.434).
La nuova sfida, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si sarebbe imposta con sempre maggiore urgenza, era quindi quella di ripensare il Politico tout court a partire dal suo lessico concettuale. È in questo senso che si sarebbe andato definendo il quadro teorico trontiano degli anni Novanta: bisognava criticare l’antropologia vigente, proponendone una alternativa; bisognava riflettere sui ritmi storici, confrontandoli con gli effetti del Politico; bisognava riscoprire una certa scientificità dietro la profezia, contro l’astrattezza dell’utopia. Bisognava, insomma, comprendere a fondo l’essenza dell’uomo e il ritmo dialettico che regola il rapporto tra storia e politica, prima di poter tornare ad agire. Per questo Tronti doveva capire, per poter tornare alla profezia scientifica e all’azione e, per capire, bisognava dare nuovi nomi alle cose. Se il ritmo della storia e le parti in gioco erano cambiate, bisognava fermarsi a riflettere e raccogliere le forze. Se la centralità operaia nel suo essere movimento era scomparsa, riducendo il soggetto operaio ad una presenza inerme e disarticolata, bisognava ripensare il reale in profondità, oltre la forma-storia capitalistica che ne rappresentava solo una parte, seppur la parte vittoriosa. Bisognava ripensare il reale nelle forme più radicali di vita, per scoprire una nuova struttura del rapporto Politica-Storia, entro la quale ritrovare la possibilità di riprogettare il futuro. «A che pro studiare la nuova forma di capitalismo se ormai aveva vinto, se ormai il capitalismo in generale aveva vinto e non c’era più una forza per contrastarlo o comunque per cercare di abbatterlo? Quando scompare la possibilità del rivolgimento, quella rivoluzione operaia che noi pensavamo negli anni ’60, a che pro studiare la nuova forma di capitalismo? Questa forse era la motivazione… però abbastanza inconscia, perché poi non è mai stata elaborata in questa forma. Però di fatto è accaduto questo, che il pensiero ha preso questa forma, cioè questa forma metaforica del pensiero politico, questo apparente parlar d’altro per parlare della stessa cosa, perché io in questi testi – ecco la continuità che si cercava – sto sempre lì, dalla parte della critica del mondo così com’è. Allargo… non è più il capitalismo, è qualche cosa di più, che riguarda le forme di vita, ma lo faccio in questa forma metaforica» (M. Tronti, conversazione con gli autori, Roma, 30 giugno 2014).
Gran parte del nuovo lessico metaforico di Tronti negli anni Novanta, quel nuovo lessico del Politico di cui si parlava, ruota intorno alla coppia dialettica Demone-Dio, come rappresentazioni metaforiche di Politica e Storia, e al problema del buco antropologico, lasciato incolmato dall’antropologia comunista. Si trattava di comprendere la logica dei tempi della storia rispetto ai tempi della politica, i processi di naturalizzazione di strutture storiche nell’emersione di tipi umani saturati dal capitalismo e, soprattutto, le potenzialità della profezia machiavellica rispetto all’utopia à la More. Cerchiamo adesso di comprendere come tutti questi elementi fossero di decisiva importanza nella loro interconnessione in questa nuova fase del pensiero trontiano, come sotto i termini metaforici vi fosse lo sforzo di un intellettuale ormai sessantenne di comprendere, tramite nuove strutture concettuali, una realtà inedita, spaesante e tragica per chi come Mario Tronti era posseduto dal demone della Politica, ma di una Grande Politica ormai del tutto tramontata. Durante l’incontro bolognese per la presentazione dell’antologia dei suoi scritti (1 febbraio 2019), riferendosi al rapporto di ritmi temporali tra Dio/Storia e Demone/Politica, Tronti continuava a dire: «Quando finalmente ho capito questo punto…». Suppongo intendesse che, una volta capito questo snodo, avesse ritenuto di aver finalmente scoperto un punto fondamentale per l’analisi delle strutture temporali del reale, nella sua profondità. Alla fine degli anni Ottanta, scopriva probabilmente quello che avrebbe tirato fuori dopo: il tragico del politico. Prima di discutere della rifondazione antropologica, bisogna infatti chiarire in che misura il Politico potesse, in quel momento, essere definito tragico e demoniaco; in che misura fosse decisivo comprendere le temporalità di Politica e Storia nel loro sovrapporsi, fratturarsi e arrestarsi.
Azzardando un’interpretazione genetica del nuovo dizionario politico trontiano, oltre che allo scontato riferimento alla dialettica Dio-Demone, analizzata nella sua natura secolarizzata secondo l’insegnamento schmittiano; il rapporto metaforico tra Demone e Dio sembrerebbe radicarsi nella tradizione della tragedia classica così da permettere di spiegare la tragicità del politico, nel senso più critico della parte che si rapporta/scontra tragicamente con il tutto. L’eroe tragico è per definizione il carattere demonico individualizzato che si oppone al Dio come necessità, come fato, nel tentativo di piegarlo alla propria volontà e al proprio vantaggio. Ed è in questo senso che la Politica diventa Demone, per Tronti, nel senso di una decisione che si impone sul ritmo ordinato della Storia e cerca di piegarla ai propri fini, di dominarla, accelerandola o rallentandola, come incanalando il corso di un fiume con dighe e chiuse. È in questo snodo teorico che deve essere individuata la cifra schmittiana del pensiero di Tronti, nell’autonomia del Politico, caratterizzato dal gesto violento della decisione sovrana che crea ordine, nomos. Se il Dio storia ha una sua logica processuale che prevede periodi di frattura e periodi epocali di struttura, il Demone della politica è il gesto sovrano che apre alla possibilità del futuro, tentando di direzionare la Storia. In questo senso è da leggere, a mio avviso, il saggio Karl und Carl (1998). Il gesto rivoluzionario è decisione sovrana, apertura di possibilità di futuro, deviazione e ritrascrizione della storia così come la si vede scorrere normalmente. È un Marx schmittiano quello di Tronti, in questa fase, un Marx che ha visto l’Economico farsi storia e utilizzare il Politico ai propri fini, e il Politico autonomizzato indebolirsi fino a diventare piccola politica, incapace di decidere sulla storia, incapace di utilizzare l’economico, un demonietto dispettoso e farsesco, non più demone edipico e tragico. L’autonomia del politico non dipende, in Tronti, da una volontaria separazione dei piani, ma dalla presa di coscienza di un’autonomizzazione dell’Economico dal Politico, un rapporto di potere che ha, adesso si può dire, del creazionismo divino. Il Politico diventa servo della Storia/Scienza economica, ma è nel servo che Tronti riconosce risiedere hegelianamente l’attività, il lavoro, la possibilità del futuro: bisogna solo liberarlo. Negli anni Novanta il Politico è, per Tronti, Prometeo incatenato ed Epimeteo liberato. È il tempo di Epimeteo, nel quale si esperisce la fine della Grande politica. Con il crollo dell’Unione Sovietica, il Dio storia, che coincide ormai del tutto con il capitalismo, laddove la scienza economica è divenuta metafisica moderna, piano ontologico monetizzato, ha assunto il ruolo del padrone rispetto al servo Politica. Conclusasi l’epoca della Grande politica, si è chiusa l’epoca dell’interdipendenza tra economico e politico, ma l’autonomia delle due sfere segna anche il tramonto definitivo della sfera Politica, perché ridotta a briciola senza Soggetto collettivo.
Seguendo il parallelo Marx-Schmitt, secondo Tronti, Marx ha scoperto il volto di quel Dio che è la storia Moderna, il Dio Denaro, il Capitale; Schmitt ha scoperto l’autonomia del politico come gesto a-storico, contro-storico, della decisione sovrana, l’innesto dell’eccezione, della frattura. Ma in questa fase del pensiero trontiano, è chiaro come, in realtà, anche il Politico sia intriso di Storico, laddove la logica divina è troppo stringente e mancano gli eroi tragici, i demoni, i soggetti politici, adatti a fronteggiarla per tentare l’assalto all’Olimpo. Tanto più se dal piano storico dipende il perpetrarsi di un modello antropologico definito che, nel caso della storia moderna-capitale, ha introiettato l’equazione Denaro – Merce – Denaro+, naturalizzando la legge del plusvalore come homo oeconomicus-democraticus. È evidente, a questo punto, come strettamente connesso al problema del tramonto della politica vi sia il problema del tramonto di un soggetto antagonista rispetto al Dio – Storia. Tronti sa bene che Politica è teoria dell’Uno che si spacca al suo interno nasconde un Due come parte dialettica, ma se la logica del Capitale diventa logica del divenire storico, metafisica dell’epoca moderna, e i tipi di uomo che produce sono uomini economico-democratici, che hanno naturalizzato il paradigma borghese, l’antagonismo risulta essere sempre riassorbito dal piano storico. Il Due è sempre sottomesso all’Uno, senza riuscire più ad intimorirlo, delegittimando la sua interezza. La sfida diventa, infatti, quella di riscoprire un Soggetto demoniaco in grado di fare Grande politica – per la quale deve necessariamente esistere una Grande Storia – , in grado di opporsi al Dio storia, profetizzando il momento dell’azione, ovvero ricercando realisticamente e scientificamente i segni germinali del futuro per comprendere quando potrà essere lecito decidere sulla Storia. Anche nell’argomento della profezia ritorna il tema oracolare di uno studio degli eventi presenti come interiora degli animali sacrificali o volo degli uccelli, al fine di comprendere la volontà del Dio che, nel caso della storia come scienza economica, rappresentano per Tronti gli eventuali segni di una fragilità in cui far breccia con una decisione rivoluzionaria.
È evidente che, alla base dell’esigenza di ripensare l’antropologia e sostituire la profezia all’utopia, vi fosse la consapevolezza dei fallimenti dell’esperimento comunista sovietico. Infatti, secondo Tronti, il duplice errore della Russia era stato quello di presupporre ottimisticamente quell’homo novus progettato dal comunismo, laddove questo doveva essere ancora creato, costruendo quindi su un buco antropologico mai colmato, e, in secondo luogo, fare politica secondo un progetto utopico, che significava imporre alla storia un modello arbitrario e non giustificato dalle condizioni materiali, costruendo su fondamenta di sabbia. Pertanto, si crede di poter individuare in questa fase del pensiero di Tronti, nonostante l’apparente atteggiamento arrendevole rispetto ad un’azione immediata, un importantissimo snodo teorico, che prospetta piuttosto un nuovo tipo di approccio al Politico, rideclinato in seguito al collasso dell’Unione Sovietica e, probabilmente, alla riflessione critica su quella che era stata l’esperienza comunista russa. Per quanto Tronti non indichi mai la strada per una possibile ricaduta pratica a partire dalle premesse del suo discorso metaforico, si crede che l’esito più conseguente, se non si vogliono meramente attendere i segnali di un tempo per profetizzare il giusto momento per l’azione, sia quello di riflettere su quel buco antropologico, per ripensare pedagogicamente la formazione di quell’homo novus, sempre presupposto, ma mai effettivamente realizzato.
Se è vero che la vocazione della Politica è quella di possedere la storia – o, spesso, più modestamente, di farla inciampare – di fecondarla, secondo un’altra coppia metaforica usata spesso da Tronti, come aristotelicamente il maschile dà forma alla materia del femminile, è vero anche che non si fa grande cultura politica senza un Sé collettivo. E se è vero che il sogno della Storia, che è terrorizzata dal Due, è quello della totale spoliticizzazione, è ovvio che l’unico modo di ripoliticizzare il reale sia quello di formare/educare un nuovo Soggetto politico che sia portatore di un’etica diversa da quella capitalistica. «Io ho sempre pensato che la politica non ha bisogno di avere fuori di sé un’etica, perché la politica che penso io, quella che pratico io, ha già in sé una dimensione etica. Io non ho bisogno di una legge morale a cui attenermi nel comportamento etico, perché il mio comportamento politico è già completamente morale, morale-sociale, nel senso dell’etica della Sittlichkeit hegeliana, non della Moralität che è quella dell’individuo. Si tratta di un’etica e non di una moralità; cioè la politica che serve per ridisegnare i rapporti di forza tra chi sta in basso e chi sta in alto nella società, che tende a rovesciare questo rapporto o comunque a riequilibrarlo, è una politica che ha già una sua eticità incorporata» (M. Tronti, conversazione con gli autori, Roma, 30 giugno 2014). Si tratta forse di riformulare una proposta pedagogica, ritrovare quella fucina antropologica, che era il partito, in grado di lavorare alla formazione dell’uomo nuovo, senza presupporlo come già dato, così da colmare un buco antropologico e liberare nuovamente il demone di una Grande politica, quel Prometeo umanissimo che si opponeva al potere necessitante del Dio. «La via della ricerca intorno a una nuova antropologia si diparte da qui. Ma si è dapprima interrotta, questa via, poi ha marcato dei passi indietro, ora va acquietandosi nella passiva comune accettazione di un’idea dell’uomo naturale borghese, valorizzata dalla laica alleanza moderna di economia e tecnica. Ogni vero processo rivoluzionario ha fondato il suo successo su una nuova idea dell’uomo, alternativa a quella dominante nel proprio tempo. Ogni volontà di rivoluzione nasce sul rischio, appunto sulla scommessa, di un altro progetto umano, di un altro modo di pensare e di agire, di immaginare e di credere, di vedere e sentire. Ripartire da qui: e bisogna calcolare se attraverso la Humana conditio o attraverso Die Seele im technischen Zeitalter, per indicare anche qui le strade simili/diverse di un Elias o di un Gehlen. Con l’avvertenza di Musil […]. Altro uomo: un titolo – dice Musil – che potrebbe stare su tutta la sua opera. “Ricordarsi: di coloro che vogliono anch’essi un altro uomo, dei rivoluzionari. In molte cose grato per il loro santo zelo, ma essi credono che l’uomo nuovo sia solo un uomo vecchio da liberare”» (M. Tronti, Il demone della politica, p.484).
Insomma, tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’ultimo decennio del Novecento, Tronti sentiva la necessità di assumere una prospettiva aerea rispetto alla ‘potenza delle cose’ per poter comprendere le nuove dinamiche della storia. Bisognava fermarsi e capire, prima di agire; serviva tempo per raccogliere le forze e dotarsi di un nuovo dizionario politico aggiornato che fosse in grado di penetrare al meglio la realtà storica e propiziare la nascita di un nuovo soggetto politico, in grado di aprire ad una nuova stagione della Grande politica. Affinché il pensiero ricominciasse a ‘decidere’ senza brancolare nel buio, bisognava riabilitare la potenza della profezia contro l’astrattezza dell’utopia. Infatti, se l’architetto dell’utopia propone un progetto utopico che, per definizione, non ha luogo concreto in terra, il profeta attende e sa cogliere i segni concreti di un futuro che necessariamente ha da venire. A Tronti, negli anni Novanta, il lessico metaforico e il nuovo dizionario politico sembravano gli unici strumenti possibili per affinare lo sguardo sul reale e reimparare a cogliere in esso – profeticamente – i segni dell’avvenire o, più semplicemente, gli interstizi e gli spiragli tramite i quali entra la luce della possibilità di una nuova Grande politica, di una decisione che si imponga alla storia come potenza non più riassorbibile. In questo senso, il buco antropologico lasciato incolmato dal comunismo, se, da una parte, era stato saturato dal capitalismo, dall’altra lasciava ancora filtrare significativamente una luce da crepe grazie alle quali si sarebbe potuto ancora pensare di scommettere su un altro tipo umano, correre il rischio di una nuova antropologia.
L’ultimo Tronti. Crisi della prassi politica, critica della democrazia e principio speranza
Vittorio Rebora
I saggi raccolti sotto il titolo Pensare il Novecento, composti nel periodo tra il 2001 e il 2015 rappresentano il punto di arrivo della riflessione filosofica di Mario Tronti. Si tratta di un percorso che ha visto davanti a sé la fine del movimento operaio, grande protagonista della storia del Novecento. Un contesto di sconfitta, dunque, a cui si accompagna la crisi della politica come azione diretta sul sociale, la cancellazione omologante di ogni ‘differenza’, e si raccolgono i frutti di quello che, come lo stesso Tronti sostenne alcuni anni prima, fu l’errore da parte del comunismo di aver presupposto un modello umano che in realtà aspettava di essere raggiunto, vale a dire quello di un uomo caratterizzato da una virtù naturale. Tronti coglie la fine della classe operaia nell’avanzare del processo di accrescimento del mondo borghese tipico della democrazia, la quale si caratterizza per la sua componente antropologica che salda l’homo oeconomicus con quello democraticus, e all’interno del quale si profila una dissonanza tra il pensare e l’agire. Una crisi dunque politica da una parte, e antropologica dall’altra.
Quella dell’ultimo Tronti è una fase di pensiero che, risentendo di influenze della fase tra il 1985 e 1998, in cui si era già delineata una differenza tra il ‘demone della politica’ e il ‘Dio della storia’, e quindi di una particolare attenzione per le tematiche teologiche, sembra incorporare quello schema di dualità mai risolta che caratterizzava fin dai primi anni della sua produzione degli anni Cinquanta e Sessanta tra classe operaia e capitale in un modo diverso: il «dentro e contro» di allora, si riflette ora nella dialettica tra ‘politica’ e ‘destino’, connotandosi di una componente speculativa ed escatologica entro cui si instaura una ‘trascendenza della politica’ tesa a rovesciare utopisticamente l’ordine esistente.
Il saggio Politica e destino (2001) si apre con la premessa che colui che scrive «pensa per agire», e quindi si assume la propria responsabilità nel tentativo di modificare il mondo circostante (p. 564). Tuttavia, da questa presa di posizione emerge una dicotomia fondamentale tra ‘politica’ e ‘destino’. Cosa si intende qui con questi due termini? Tronti osserva che nella storia della filosofia, da Platone a Hegel, lo scopo della politica non risieda tanto nel motivo di tenere assieme gli uomini, ma nel modo in cui farlo. Eppure, le azioni politiche si scontrano con il destino, laddove con esso non si intende «sorte necessaria», quanto piuttosto «Schicksal» (p. 565). Sarà proprio questo il termine su cui si giocherà l’analisi trontiana della condizione dell’uomo occidentale contemporaneo, il quale, sarebbe rimasto «senza volontà» (p. 568). Citando, infatti, la traduzione del frammento Freiheit und Schicksal del giovane Hegel, a opera dell’amico Cesare Luporini, vi si legge: «[…] il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché onora il negativo» (p. 568). Attualizzata, questa affermazione acquisisce un senso nella misura in cui l’uomo che soffre senza volontà è l’homo democraticus, modello antropologico derivante dalla spoliticizzazione dell’homo oeconomicus. Per sostenere con maggior forza la propria argomentazione, in seguito, Tronti annota la costatazione di Luporini per cui quello che Hegel chiama Begeisterung, è ciò che pertiene all’uomo nella propria naturalità e autenticità (p. 570). Asserendo che non si possa più parlare dell’idea di destino collettivo (Geschick) heideggeriano – comprensibile piuttosto nel contesto più ottimista della prima metà del Novecento (p. 571) – la tesi di Tronti si potrebbe riflettere in modo cangiante nell’idea per cui la politica contemporanea non sia più ‘creazione’, ma un ‘rispecchiamento’ passivo di eventi (p. 566).
Nel momento in cui la politica è il destino di una singola parte politica, i problemi dell’Età contemporanea con cui bisogna fare i conti sono la crisi del movimento operaio, uno dei massimi protagonisti della storia del Novecento, definito da Tronti «l’unica figura escatologica in grado di realizzare un moderno principio-speranza» (p. 583), e la settorializzazione delle scienze, ora al servizio di pochi.
Senza alcun intento retorico o estetizzante, Tronti sostiene che la bellezza della politica risieda proprio nel fatto che essa stessa sia ‘destino’, cioè che non può mai essere del tutto razionalizzata (p. 578). Ma in un’epoca in cui il capitalismo sembra essere diventato irreversibile e in cui il processo di omologazione ‘normalizzante’ sembra aver preso il sopravvento, la prospettiva di una prassi politica deve essere di matrice ‘creativa’ (p. 566).
È interessante notare come la riflessione trontiana si proietti anche sul piano più schiettamente antropologico già nel saggio in oggetto. Infatti, vi si legge che la politica in quanto tale abbia nietzschianamente bisogno del ‘Grande stile’ (pp. 578, 580). Non è perfettamente chiaro il motivo dell’uso di questa espressione. Tuttavia, nel tentavo di fornirne un’interpretazione, ci si può collegare ad un altro tema di vitale importanza, vale a dire quello della crisi della soggettività.
Infatti, in Lo spirito che disordina il mondo (2006, 16 novembre), ad un certo punto Tronti arriva ad enunciare che il dominio borghese abbia addirittura «reciso le radici dell’anima all’interno delle persone» (p. 615). Lo scenario che si staglia sullo sfondo dell’avanzamento ‘tecnico’ è, sulla falsariga del Der Arbeiter (1932) di Jünger, quello della reificazione e dell’omologazione. Questa crisi dell’individualità è inoltre presa in esame in L’eredità di quello che è stato (2005) e in Per la critica della democrazia (2005, gennaio 29). Nel primo saggio, è messo in luce un fattore che ha contribuito alla crisi suddetta, cioè il post-fordismo, il quale, oltre ad aver scomposto il lavoro del singolo, è riuscito anche a indebolire il legame sociale di classe, vanificando e rendendo vacua la distinzione tra operai e padroni (p. 597). Proprio qui, Tronti scrive: «La singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico» (p. 608). Bisogna, quindi, risalire alle radici di questo processo.
Criticando l’attuale funzionamento delle istituzioni vigenti, Tronti sostiene che la democrazia sia una sorta di «Giano bifronte» in cui collimano «pratica di dominio» e «progetto di liberazione» (p. 602). Questa vocazione al dominio è data dalla tendenza della democrazia a voler cancellare ogni differenza, segno che per Tronti è invece espressione di libertà (p. 604). Le ragioni di questo processo, si possono rinvenire in una frase di Carl Schmitt tratta da Dottrina della costituzione (1928): «La democrazia è una forma di stato che corrisponde al principio di identità; […] è l’identità dei dominati e dei dominanti» (p. 293). Ma al giorno d’oggi, invece, essa si può a buon diritto definire «[…] il potere di tutti su ognuno […]» (p. 607). Si tratta, in vero, di un meccanismo che, pur unificando tutti i fattori antagonisti, non riesce a conciliarli in un modo armonico che renda possibile lo sviluppo dialettico della storia.
Per descrivere ancora meglio questa condizione, Tronti, in Lo spirito che disordina il mondo, dipinge la democrazia come un «disordine non spontaneo» (p. 622). Il problema dell’ordine è da sempre presente in tutta la storia della filosofia e, come spesso accade, in politica si palesa nel rapporto armonico tra la propria interiorità e l’esterno. Da un lato è quindi necessaria la politica come fattore di ordine sociale e dall’altro la ‘spiritualità’, laddove con la prima si intende agire sul mondo, mentre con la seconda si cura il proprio «foro interiore» (p. 611).
Salta all’occhio immediatamente un tema molto dibattuto in Età contemporanea, cioè la distinzione tra ‘pubblico’ e ‘privato’: se in Età moderna si poteva parlare del binomio tra vizi privati e virtù pubbliche, ora – osserva Tronti – si ha un «rovesciamento del binomio: vizi pubblici e virtù privata, nel senso che, di fronte alla condizione non entusiasmante della politica, a volte ci si vanta, o si è costretti a vantare, la frequentazione di un retroterra di rispetto, di dignità» (p. 612).
A stagliarsi su questo sfondo, inoltre, non è solo la distinzione appena accennata, ma anche il «fondamentalismo democratico» (p. 613), e il passaggio dal «dominio della scienza» al «dominio della tecnica» (p. 614). Il primo fattore è riconducibile ad una confusione tra religione e politica, mediante il quale si giunge addirittura ad una servitù volontaria che delega il totale assenso a chi comanda. Per quanto concerne il secondo punto, viene spontaneo chiedersi in che cosa si differenzi in questo frangente la scienza dalla tecnica. Il tutto sta in una diversa concezione della ‘ratio’: se nel Rinascimento si affaccia l’idea di una «grande ragione rinascimentale» che contribuisce a un rinnovamento complessivo del genere umano attraverso l’avanzamento delle scienze, nel XX secolo questa si trasforma in una «piccola ragione strumentale» comandata dalla tecnica (p. 614).
Alla luce di quanto detto, infine, Tronti ravvisa in questo processo di ‘borghesizzazione’ una «non sufficienza del genere umano» (p. 613). Ciò che favorisce questo fenomeno è l’accelerazione del sistema generale, unita al modo in cui viene gestito il circolo economico fondato su produzione, circolazione, distribuzione e consumo.
Nonostante questo panorama presenti sfaccettature molto pessimistiche, Tronti, sembra intravvedere uno spiraglio di luce: nella conclusione di Lo spirito che disordina il mondo, Tronti suggerisce che per ‘disordinare’ l’ordine costituito sia necessario partire dal basso come gli eretici. Una possibile chiave di svolta è individuata, invece, nel saggio Fare società con la politica (2008, giugno 27), all’interno del quale viene auspicato il ritorno di una sinistra che abbia nuovamente il potere di influire sulla massa sociale.
Proprio nella fase di crisi dell’ultimo ciclo capitalista, è opportuno chiedersi cosa abbia lasciato il Novecento per quanto riguarda le categorie storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Secondo Tronti, quando si parla di destra si è soliti riferirsi a quelle note strutture totalitarie come fascismo e nazionalsocialismo (p. 626). Il problema di questo accostamento – dovuto soprattutto alla cultura azionista che ha identificato il fascismo con la tradizione e l’antifascismo con la modernità – è che occulta l’attuale natura della destra ai giorni nostri. Stando al saggio di Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), in questa fase si sarebbe verificata una svolta neoconservatrice, la quale ha un andamento ciclico all’interno dell’evoluzione storica del capitalismo, e che rivendica il primato del politico sull’economico. La crescita della destra è stata favorita da fattori come la crisi del voto razionale, e da altri di natura psicologica come lo stress, l’insicurezza, la rassegnazione (p. 627). Ciò che deve fare la sinistra è agire sul sociale:
Il problema non è di radicarsi nel territorio, ma di cambiare il territorio. Una città, una provincia, una regione, sono la stessa cosa che il paese: non si amministrano, si governano. Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi. È un lavoro di ardua progettazione e difficilissima esecuzione.
Infine, negli ultimi due scritti, cioè, Walter Benjamin: frammento teologico-politico (2010, marzo 18) e Un messaggio dall’imperatore (2015), Tronti esprime alcune forme del principio di salvezza e speranza per il futuro, cioè: il messianico da una parte, e il messaggio mai giunto a destinazione narrato da Kafka dall’altra. Il frammento di Benjamin si pone a livello storico sulla falsariga della teologia politica di Schmitt e presenta influenze che gli derivano da Bloch, in particolare, da Lo spirito dell’utopia (1918) e da Thomas Müntzer (1921). In questi due scritti blochiani traspare innanzitutto una rivolta nei confronti della mera fattualità del presente, espressa nelle frasi «io sono, noi siamo» (Bloch, Spirito dell’utopia, p. 3) o «noi vogliamo essere soltanto con noi» (Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, p. 29). La vera importanza del messianico consiste nel congiungere il teologico e il politico senza che esso si riassuma in una teocrazia, e nello stesso tempo «compie ogni accadere storico, introducendo nella storia vincente delle classi dominanti la scintilla della speranza, patrimonio delle classi oppresse» (p. 642) Come avviene questo? Facendo riferimento a un altro testo benjaminiano del 1920-21, Per la critica della violenza, Tronti menziona la distinzione tra la violenza mitica, che precede la formazione del diritto e dello stato d’eccezione, e la violenza divina, la quale ‘disordina’ l’istituzione esistente, e lo fa partendo dal basso, dalle classi sottomesse (p. 639). Si tratta di un disordine, questo, che cancella la distinzione «tra l’alto e il basso, tra il sopra e il sotto, tra dominanti e dominati» come avrebbe voluto Marx, il quale, secondo Benjamin avrebbe secolarizzato esattamente il tempo messianico di cui si è parlato (p. 644).
Ne Il messaggio dell’imperatore, titolo di un racconto di Kafka del 1917, coevo, tra l’altro, alla scrittura delle Tesi di aprile di Lenin, Tronti mette in evidenza nuovamente la speranza permanente per la classe operaia: il messaggero riceve dall’imperatore morente un importantissimo messaggio da consegnare, ma non riesce a uscire dal palazzo occupato da tanta gente in continuo caotico movimento, simboleggiante la condizione del capitalismo odierno. Pur non essendo riuscito nel proprio intento quel messaggio permane e il passaggio del messaggero ha scosso la coscienza delle persone all’interno del palazzo creando scompiglio: «Che cosa è mancato al movimento operaio? I Padri del deserto ci sono stati. Non sono stati ascoltati. Ma non è questo il loro compito: l’ascolto da parte del proprio tempo. No, è piuttosto il seme gettato nel campo del futuro» (p. 651). Ciò che è mancato a quel messaggio è l’istituzionalizzazione di una forza politica; e nell’esprimere questo pensiero (apparentemente sorprendente) Tronti si riferisce alla Chiesa. Quest’ultima non è, citando le parole di Papa Benedetto XVI, totalmente pura, ma è premixta. Nello stesso modo in cui si sono rivelate una Chiesa di Cristo e una dell’Anticristo, così la storia è per Tronti fatta di uno Stato di buoni e di malvagi nello stesso corpo politico e della politica. Per trasformare la vita occorre adottare quella chiarezza dello sguardo che getti luce su quell’irriducibile ‘mistero di iniquità’ della condizione umana, e «[…] con la pace nel cuore, combattere senza speranza di revelatio definitiva alla fine dei tempi» (p. 652).
In conclusione, le trasformazioni dell’Età contemporanea, inducono a domandarsi su quali basi si possa non accettare e nemmeno riformare la situazione del presente. Se non è più possibile parlare di libera individualità, diventa impensabile agire politicamente, soprattutto considerando che nel contesto attuale la democrazia cancella ogni differenza. La grande contraddizione che si staglia su questo sfondo è che la democrazia in quanto tale dovrebbe fondarsi su un’uguaglianza di diritti, che, a sua volta, ha il compito di conservare la pluralità, e quindi la differenza. Invece, ciò che si prospetta ora è la cancellazione di ogni diversità all’interno di un quadro di omologazione che coinvolge l’essere umano persino nella sua interiorità, alienato da un consumismo che sembra indurre le persone a non avere più il controllo della propria libertà. Questo problema di natura antropologica si proietta chiaramente anche sul contesto politico, poiché la politica è schiava di meccanismi che non hanno nulla a che vedere con la prassi diretta sul sociale, ma si riduce a mera amministrazione burocratica. Va da sé, che con l’avvento di questa crisi della democrazia, anche la storia non è più analizzabile in un’ottica di opposizione dialettica tra movimenti politici, e la scomparsa del movimento operaio dalla scena si mostra apparentemente come un segnale di una fine della politica come il Novecento aveva conosciuto.
Occorre, invece, uno sguardo critico nei confronti del presente nel tentativo di frenare questo declino, e per favorire ciò, è necessario focalizzarsi sul problema della libertà, la quale, a sua volta, non può in alcun modo rinunciare ad un’ideale di rinnovamento dell’individuo. Un tale rinnovamento all’interno di questo contesto non può che passare attraverso la libertà dello spirito, una libertà che muove dal basso verso l’alto al di sopra della sterilità del presente.
Nel tentativo di riprendere la domanda sul significato di ‘Grande stile’, si può constatare che, se è necessaria una speranza per ribellarsi all’atrofizzazione del mondo, questa deve giungere non solo alle classi oppresse, ma anche al singolo individuo, il quale dove essere il grado di trovare quella che nel suo omonimo saggio del 1999 James Hillam definisce «la forza del carattere». E nella misura in cui Nietzsche, nel celeberrimo aforismo 290 della Gaia scienza sostiene che una sola cosa sia necessaria, cioè «‘Dare uno stile’ al proprio carattere», il tentativo di agire sulla trasformazione del singolo in modo che possa sviluppare una propria libera e forte volontà potrebbe portare ad un adeguato compimento di una nuova prassi politica messa in crisi dal nichilismo che ha lasciato il Novecento. E nella misura in cui la profezia di cui parla Tronti nei suoi ultimi scritti non si esaurisce in un vano sogno utopico, ma rappresenta piuttosto la congiunzione tra ciò che viene detto oggi e quello che sarà in futuro, la speranza di cambiare l’ordine esistente è oggi ancora in vita.